In quanto uomo, m'impegno ad affrontare il rischio dell'annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo
la loro luce essenziale (Frantz Fanon)

martedì 13 agosto 2013

Verso lo zero assoluto

Voici la folle qui passe en dansant, tandis qu'elle se rappelle vaguement quelque chose.   Les enfants la poursuivent à coups de pierre,comme si c'était un merle.

(Isidore Ducasse, Chants de Maldoror)

Manifestazione neonazista. La donna esagitata ha scolpite sul viso le stigmate dello smarrimento di sé. Sono volti che ben conosciamo, sempre più diffusi nei quartieri più degradati delle città del mondo, gente al margine, vite precarie su cui, oltre alla carenza di beni materiali, incombe l'ipoteca di una individuale apocalisse.
La miseria è talvolta causa, tal altra effetto, di una perdita che comunque sovrasta ogni depauperamento materiale: lo smarrimento della bussola esistenziale, della capacità di essere adeguatamente nel mondo.
Siamo al grado zero, zero assoluto, della capacità di giudizio. 
In una disperata ricerca di una definizione della propria identità, che vada al di là dei nudi dati anagrafici del nome, del luogo e della data di nascita, si replica inconsciamente l'iter burocratico dei documenti, ma lo stato civile e la professione tacciono pietosamente, protetti dalla privacy, o mentono, riportando notizie di una vita di prima, che ormai non c'è più.
Resta la cittadinanza, e a quella ci si aggrappa: è l'unica cosa rimasta, una cosa preziosa che non si può condividere facilmente, che non si deve inflazionare.
Del resto, nella regressione impietosa delle sue facoltà, ha riscoperto quel principio di imputazione per cui, da bambina, picchiava l'altalena cattiva da cui era caduta. Di tutto c'è un colpevole e del suo stato attuale, il responsabile ideale è lo straniero, antico archetipo del male, che massacra e razzia, ruba i bambini e fa il malocchio.

Di poco più su dello zero c'è l'intero universo del populismo fascistoide europeo.
Sono un po' più sani di mente, ma giugono alle stesse conclusioni, la tesaurizzazione della cittadinanza, applicando il medesimo principio d'imputazione: se le cose vanno male, la colpa è degli immigrati. 
È un caso di ansia collettiva, dunque dalla psicosi siamo passati alla nevrosi, ma una nevrosi socialmente indotta, approfittando del decifit culturale di massa prodotto in concerto da sistema scolastico, industria culturale e apparato di informazione.
Sebbene, alla fin fine, la caccia all'untore non evitò l'assalto ai forni, resta regola aurea, in tempi grami, indirizzare il malcontento popolare su un capro espiatorio facilmente identificabile e perseguibile, gli ebrei – per secoli – svolsero egregiamente questo compito.
Il candidato ideale, funzionale ad un eventuale fai da te persecutorio, deve essere facilmente identificabile, prontamente reperibile e socialmente debole, per ridurre al minimo i margini di tutela e ritorsione legale. Un banchiere svizzero è impensabile, un venditore ambulante nordafricano è perfetto.
Ci vuole, comunque un'autorità che lo indichi perché, nella sua qualità di capro espiatorio, è, in qualche modo, sacralizzato. 
Tale funzione, un tempo riservata agli oracoli, oggi è svolta dai giornali e dai telegiornali. Un buon oracolo – e quello di Delfi era il migliore – non afferma né nega, ma allude. E questo è il metodo tuttora osservato.
Nello spazio tiranno della pagina di cronaca o del palinsesto televisivo, si fanno delle scelte: quali notizie dare, quale ordine d'importanza assegnar loro, quanto spazio dedicarvi, quanti aggiornamenti proporne. Or bene, i nostri giornalisti, una delle professioni nazionali più ereditarie , per numero, rilevanza, ampiezza e ricorrenza, hanno a lungo privilegiato le notizie che vedevano come protagonisti (negativi) gli immigrati, malcelando la soddisfazione per l'effimero coinvolgimento di forestieri in qualche “delitto del secolo” (strage di Erba, omicidio Gambirasio). È quello che i loro padri avevano fatto con l'emigrazione interna del dopoguerra, e i loro nonni con gli ebrei.
Non c'è nessun bisogno che si propongano conclusioni, i dati, sapientemente selezionati, invitano ognuno a trarre un immancabile e identico risultato.

Poi, però, ci sono quelli che non ci cascano, quelli che non si fanno incantare dagli imbonitori. Cioè noi, la sinistra, gente dotata di spirito critico, culturalmente – se non antropologicamente – superiore alla massa semianalfabeta che alimenta i pingui bottini elettorali della destra italiana.
Siamo diversi. Ma quanto? Come si formano le opinioni di sinista?
Recentemente, una campagna sapientemente orchestrata ci ha convinti che ci sia in atto un femminicidio. Anche in questo caso numero, rilevanza, ampiezza e ricorrenza di notizie, accuratamente selezionate, ci hanno fatto credere di essere in presenza di un fenomeno in crescita, allo stesso modo in cui la raffica di spot sugli sbarchi a Lampedusa ingenera la falsa sensazione di un'espansione dei movimenti migratori.
In realtà le statistiche dimostrano che entrambi i fenomeni sono in calo: diminuisce il numero degli immigrati come quello delle donne uccise.
Ha ben poca importanza che nell'abituale decretazione d'urgenza, forma attenuata di dittatura che caratterizza la concezione italiana di governabilità, si inseriscano – come nei contratti di zio Paperone – codicilli che criminalizzano forme di dissenso estranee al problema posto, questo è un benefit aggiuntivo, il risultato principale perseguito è quello di estendere le forme dell'ansia securitaria, allo scopo che tutti, ma proprio tutti, invochino la panacea universale della repressione e della galera.
Non manca la regressione all'infantile principio di imputazione.
È di questi giorni l'agghiacciante notizia del suicidio di un quattordicenne, schiacciato dal peso del rifiuto sociale della propria scelta omosessuale.
Ci si potrebbe interrogare se, nel marasma affettivo e ormonale che accompagna la metamorfosi adolescenziale, tale scelta non sia, a quell'età, precoce e se una cultura che propone la naturalizzazione di ogni opzione sessuale non faccia sottovalutare il grado di investimento di sé che ogni scelta forte, comporta.
Siamo ben contenti, beninteso, che la scelta comunista in adolescenza non comporti l'eroismo richiesto a suo tempo a Giancarlo Pajetta, né che la scelta omosessuale richieda l'abnegazione ancora necessaria negli anni '60 a Mario Mieli, ma riteniamo che il meritorio andar controcorrente non sia gratuito e richieda ancora un certo grado di coraggio e un sodale sostegno.
L'amicizia e la simpatia non si impongono per legge e la marginalizzazione o l'esclusione da una cerchia, per i più svariati e stravaganti motivi, è un rifiuto sentimentale a cui nessun divieto può opporsi.
Ecco, però, come si affronta il fatto. 
Di fronte all'annichilente tragicità dell'evento, sarebbe ingeneroso liquidarlo mettendolo in conto alla fragilità individuale del suo protagonista. Giusto, perché la situazione psicologica che si è determinata non può essere addebitata a una particolare debolezza del soggetto, ma alla forza distruttiva di un pregiudizio culturale tuttora operante, che è di evidente natura sociale.
Senonché, il sociale, per uno scivolamento semantico tanto facile, quanto indebito, diventa ambientale e si va a cercare il colpevole tra i compagnucci della vittima. Risuona la parola d'ordine, omofobia, e le responsabilità, da sociali, ritornano individuali, criminalizzando dei ragazzini, nella modalità classica dell'individuazione di un capro espiatorio.
La distanza tra noi e la mattacchiona della fotografia si è colmata e ciò, da un certo punto di vista è un bene. Ma anche il divario tra strutture di pensiero e modalità della formazione delle opinioni, di destra e sinistra si azzera. Siamo tutti dentro un orizzonte piccolo borghese che invera quella coalizione di governo che a qualcuno pareva innaturale.