Debito, fin dove?
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Debito, parola pesante. Parola che mescola in maniera inestricabile giudizi morali e finanziari … Il Tedesco è lingua eloquente, perché utilizza lo stesso vocabolo, Schuld, sia per dire debito, che colpa. E anche gli antropologi possono dirci molto, a riguardo.
Marshall Sahlins[1] e Maurice Godelier[2], in special modo, hanno dimostrato che la relazione di debito si iscrive in un rapporto di potere. È il riconoscimento di un debito simbolico che ha portato alla comparsa di società gerarchiche e ineguali, dove alcuni vivono del lavoro degli altri. Nell’antichità, per debiti, si rischiava la riduzione in schiavitù o si era costretti ad abbandonare i propri figli[3]. Alle origini di molte rivolte sociali,il debito era una costante minaccia per le società antiche, minaccia scongiurata da ricorrenti cancellazioni dei debiti o dall’imposizione di limiti alle richieste dei creditori. Fino a dove arriva l’obbligo di pagare i propri debiti? Quando diventa illegittimo il debito? Vecchie domande indagata da David Graeber nel suo ultimo lavoro , Debt, the First 5,000 Years, di bruciante attualità nel momento in cui il debito pubblico è il pretesto per brutali penitenze collettive.
Il debito è un rapporto economico e morale che coinvolge sia il debitore che il creditore, ma è anche un rapporto politico i cui termini possono essere rovesciati in qualsiasi momento. È fondamentale ricordarselo oggi, quando il potenziale avvento di un governo del debito tende a sacralizzare questa relazione ineguale.
In nome del debito è messo in moto un processo predatorio allo scopo di offrire nuove occasioni di profitto, nel tentativo di far ripartire la macchina capitalista scassata dalla crisi. Privatizzazioni in svendita, decurtamento di salari e pensioni, smantellamento dei servizi pubblici, sono le tante facce di uno stesso fenomeno: bisogna tentare di rilanciare l’accumulazione di capitale garantendo nuove opportunità di profitto a spese del benessere conquistato, un tempo, dall’insieme della società, o da suoi singoli settori.
Per cercare di contrastare questa ondata di espropriazione e provare a uscire dall’incubo, è necessaria una premessa: decostruire ciò che si intende per debito.
Bisogna, intanto, insistere su un punto, il debito pubblico, negoziato sui mercati finanziari liberalizzati, è il contraltare dell’austerità: il finanziamento delle pubbliche amministrazioni attraverso i mercati è il meccanismo che permette un ricatto permanente tramite i tassi di interesse. Nel passato ci sono state altre forme di finanziamento pubblico. In Francia, fino all’abolizione dei plafond di titoli pubblici, alla fine degli anni ’60, le banche erano obbligate a contribuire al sostegno finanziario dello Stato. Inoltre, a differenza di quanto avviene con la BCE, la banca centrale era autorizzata a dare garanzia illimitata ai titoli pubblici, scoraggiando così la speculazione (come avviene tuttora in Giappone e negli USA).
Tuttavia, non ci sono soluzioni monetarie magiche alla crisi del debito. Nell’immediato, certamente, garanzie da parte della banca centrale potrebbe ottenere una tregua provvisoria ed evitare la spirale depressiva che sta per abbattersi sull’Europa. Ma la posta in gioco, più sostanzialmente, è una nuova fase di conflitto endemico tipica di quello che Wolfgang Streeckchiama capitalismo democratico. Questo conflitto oppone da un lato, i bisogni della popolazione – in termini di servizi pubblici, sicurezza sociale e salari – così come si riflettono, in maniera deformata, nelle istituzioni politiche e sociali, e dall’altra le esigenze di redditività sottese dai mercati. Questa contraddizione, che non può più essere contenuta, come nel dopoguerra, dalle dinamiche del sistema, assume differenti volti: inflazione negli anni ’70, debito pubblico negli anni ’80, debiti privati, a partire dagli anni ’90, con speciale riferimento a paesi anglosassoni e Spagna.
La crescita del debito – che è, nell’attuale periodo, un altro dei nomi della finanza – a permesso, provvisoriamente, di spalmare nel tempo il conflitto, dando l’illusione che i bisogni delle popolazioni e le esigenze del capitale potevano essere conciliati. La liberalizzazione della finanza, e la sua estrema sofisticazione attraverso la moltiplicazione di prodotti derivati, non è stata che un trucco che ha permesso di gonfiare un po’ di più il palloncino delle promesse insostenibili. La crisi ha suonato la campana a morto di questa chimera. Gli Stati sono accorsi a sostenere il sistema finanziario, ma a costo dell’erosione della fiducia nei titoli del debito pubblico, si assiste così a un meraviglioso effetto boomerang: il sistema finanziario si blocca, minacciando nuovamente di fallimento le banche. Respinto al mittente. Non rimane altra soluzione se non cominciare una penosa operazione di sgonfiamento, attuabile solo attraverso l’austerità e le privatizzazioni. È in questo scenario che si colloca la questione della legittimità del debito.
Il debito pubblico europeo non è, al momento un odious debt del tipo di quello, ad esempio, delle dittature dell’America Latina degli anni ’70, tuttavia è altrettanto illegittimo[4].
La prima cosa da dire è che l’esplosione del debito pubblico è la conseguenza diretta dei piani di salvataggio, e rilancio, del sistema bancario degli anni 2008-2009, ma soprattutto che è frutto della perdita di gettito determinata dalla crisi. Il costo della crisi, nata nella sfera finanziaria, è stato così trasferito agli stati: il debito pubblico della Francia è passato dal 63,7% del PIL, di fine 2007, all’86,2% del giugno 2011; quelli di Irlanda e Spagna sono cresciuti, nell’arco 2007-2010, rispettivamente, dal 25 al 79,7% e dal 36,2 al 62,3%.
Su più lungo periodo, un altro aspetto del problema è rappresentato dall’utilizzo per il debito dei prodotti finanziari resisi disponibili. Ci sono casi particolari abbastanza stuzzicanti. La Grecia è il paese europeo che ha il livello di spesa per armamenti più alto in rapporto al PIL (3,2% nel 2009) … e i suoi principali fornitori sono Francia e Germania, proprio i suoi maggiori creditori esteri! Ma un fenomeno più generale concerne l’evoluzione della fiscalità. Se nella maggior parte degli stati i prelievi fiscali non sono diminuiti nel corso degli ultimi due decenni, in compenso dappertutto sono calate le aliquote di tassazione dei più ricchi. L’aumento del debito pubblico, prima della crisi, è stato spesso il corollario di una fiscalità violentemente antiredistributiva. Per la Francia lo documentano i lavori di Camille Landais, Thomas Piketty et Emmanuel Saez. A ciò si deve aggiungere la diminuzione dei prelievi sul capitale, che vanno a erodere ulteriormente il gettito per le amministrazioni pubbliche, in concreto sgravi e franchigie contributive, nicchie fiscali e provvedimenti specifici, come il credito d’imposta per la ricerca. Le somme in gioco sono notevoli, in Francia, 172 miliardi di meno nel 2010, l’8,9% del PIL[5]. Inoltre a questi nuovi privilegi dei ricchi e del capitale si associa il libero accesso ai paradisi fiscali, dove si è collocato, libero da imposte, l’8% della ricchezza mondiale. In Francia la quota di reddito dell’1% dei più ricchi si incrementerà del 20% del reddito globale, il doppio rispetto ai dati nazionali (vedi grafico). Esiste poi una relazione tra evoluzione della fiscalità, che ha favorito la crescita delle ineguaglianze e una ripartizione sfavorevole al lavoro della ricchezza prodotta, e l’impennarsi del debito pubblico che ha dovuto riempire il vuoto di mancati introiti fiscali.
da: Gabriel Zucman, The Missing Wealth of Nations: Evidence From Switzerland, 1914-2010, First Draft: February 7th, 2011, p. 57.
http://www.parisschoolofeconomics.eu/docs/zucman-gabriel/mwn8feb.pdfUn ultima dimensione, forse ancora più essenziale, consiste nel verificare gli effetti delle misure di austerità, prese in nome del risarcimento del debito, Se le persone non sono letteralmente ridotte in schiavitù, la violenza strutturale implicata dal governo del debito non è meno terribile. La generalizzazione di disoccupazione e miseria sono gli aspetti meglio conosciuti del vortice in cui precipitano le società aspirate dalla depressione. le ferite sono profonde. Uno studio pubblicato dal Lancet [6] mette in luce un’allarmante costante sull’evoluzione della situazione sanitaria in Grecia – paese all’avanguardia nel processo di pauperizzazione da debito –. Qui, tra il 2007 e il 2009, il fondo per le spese ospedaliere è diminuito del 40%, il numero dei cittadini che si sentono affidati a una cattiva, o molto cattiva, assistenza sanitaria è salito del 14%, il tasso dei suicidi è salito del 17% e la tendenza ha subito, successivamente, un accelerazione, + 25% nel 2010, rispetto al 2008, e + 40% nel primo semestre del 2011, in confronto dello stesso periodo dell’anno precedente.
Debito fin dove, dunque? Inventato per ammortizzare lo choc del naufragio della finanza e per compensare i privilegi conquistati dal capitale e dagli alti redditi, questo debito non appartiene al 99% di noi. Il prezzo preteso per estinguerlo è inaccettabile: onorarlo significa rinunciare ai diritti sociali, comprimere i redditi e infine stracciare ciò che resta di quella spesa pubblica che permette di edificare una società.
Soprattutto sarebbe abdicare alla nostra dignità, per accettare di sottomettersi ulteriormente al potere del capitale centralizzato nella finanza. Ovunque si esercita il ricatto del debito si può costruire un fronte unico contro l’austerità [7]. I diktat della finanza possono essere rifiutati. Questo significa interrompere i pagamenti – una moratoria – e stabilire con chiarezza chi sono i creditori – l’audit – per stabilire quale parte del debito va onorata e quale rifiutata. Senz’altro le banche, e il sistema finanziario così come lo conosciamo, non resisteranno al colpo, ma che rammarico dovremmo averne? Un’alternativa c’è: nazionalizzare il comparto finanziario e costruire un sistema socializzato del credito [8].
Note
[1] Marshall Sahlins, L’economia dell’età della pietra, Bompiani, Milano, 1980.
[2] Maurice Godelier, Al fondamento delle società umane. Ciò che ci insegna l'antropologia, Yaka Book, Milano, 2009.
[3] Moses Finley, Economia e società nel mondo antico, Bari, Laterza, 1984.
[5] Conseil des prélèvements obligatoires, Entreprises et "niches" fiscales et sociales – Des dispositifs dérogatoires nombreux, octobre 2010,http://www.ccomptes.fr/fr/CPO/documents/divers/Rapport_de_synthese_Entreprises_et_niches_fiscales_et_sociales_071010.pdf.
[8] Frédéric Lordon, La crise de trop, Reconstruction d'un monde failli, Fayard, 2009. Un compte rendu est disponible ici : http://www.contretemps.eu/lectures/propos-dernier-livre-frederic-lordon.