In quanto uomo, m'impegno ad affrontare il rischio dell'annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo
la loro luce essenziale (Frantz Fanon)

se l'amica di picasso civetta con il fascismo

di Piero Sanavio [il manifesto, 20 maggio 2012]
in parte si sapeva, ma ora, dall'America,
Unlikely Collaboration ricostruisce
per intero, con onestà, la spinosa vicenda


L'estate 1940, l'esercito francese distrutto dai carri armati di Guderian e il governo di Vichy installato al potere, Gertrude Stein tradusse in inglese due discorsi del nuovo capo del governo, il generale Pétain, con l'intenzione di farli pubblicare negli Stati Uniti. L'iniziativa non ebbe seguito, ma gli articoli, scelti dal volume Paroles aux Français del generale, sono reperibili negli archivi della Beinecke Library, all'università di Yale. Più fortuna ebbe l'articolo «The Winner Loser, A Picture of Occupied France» (Chi ha perso vince, ritratto della Francia occupata), apparso quello stesso 1940 sull'autorevole «Atlantic Monthly» dove la scrittrice, dopo un panegirico del generale, sosteneva che i francesi stavano molto meglio con l'armistizio perché tutto era ritornato nella normalità, c'era la pace. Il discorso sarà ampliato in un articolo per il perodico pétainista «La Patrie» e in un'intervista concessa al giornale regionale Le Bugiste, molto letto nella parte di Francia dove Gertrude Stein e l'inseparabile Alice Toklas trascorrevano gli anni dell'Occupazione. Pétain era il salvatore della patria, aveva riportato la pace in Francia, paese molto legato alle proprie tradizioni contadine, la pura lingua francese era quella del terroir, Pétain apparteneva al terroir. Erano i discorsi della propaganda vichyista e del partito del generale che alla tradizione del 1789 opponeva la propria Révolution Nationale e lo slogan travail famille-patrie al tradizionale liberté-égalité- fraternité.
Che Gertrude Stein fosse una liberista a oltranza, contraria a ogni intervento statale nell'economia, e di conseguenza avesse sempre espresso disprezzo e irritazione per i due Roosevelt (Teddy, per lo Square Deal; Franklin D. , per il New Deal), e che avesse sostenuto Franco durante la guerra civile spagnola, era noto. Si sapeva anche delle sue simpatie per Pétain che tuttavia non inficiarono il trionfalismo della stampa americana, il '45, quando la scrittrice, e Alice, erano presentate come due coraggiose patriote, sopravvissute alle durezze dell'Occupazione. Né impedì a Gertrude, in concomitanza con la pubblicazione del reticente Wars I Have Seen (Guerre che ho visto), di essere incaricata da «Life» di accompagnare un gruppo di GI in un giro della Germania bombardata e di scriverne un resoconto. L'articolo, «Off We All Went to See Germany» (E andammo tutti a vedere la Germania), fu stampato con dovizia di fotografie, la più celebre quella della scrittrice e un gruppo di GI a Berchtesgaden e indicano con il braccio teso il luogo dove, in quella cittadina, Hitler aveva costruito il suo rifugio.
Le reticenze di Wars I Have Seen si riferiscono alle amicizie della scrittrice con personaggi dell'entourage pétainista che le permisero di vivere senza eccessivi problemi nella Francia occupata non soltanto in quanto cittadina di un paese nemico ma anche in quanto ebrea. Il pétainismo, l'aver sempre sostenuto l'importanza dell'assimilazione esprimendo anche scarsa se non nessuna simpatia per il sionismo, non bastavano certo a proteggerla dalle persecuzioni razziste. Né il fatto che nel romanzo che doveva «finirla con tutti i romanzi», The Making of the Americans (La fabbrica degli americani) - una storia romanzata di una famiglia molto simile alla sua che in America si assimila diventando «americana» -, lei avesse cancellato (come appare dai manoscritti) ogni indizio che si trattava di ebrei.
Nel recente Unlikely Collaboration: Gertrude Stein, Bernard Faÿ and the Vichy Dilemma (Un'improbabile collaborazione: Gertrude Stein, Bernard Faÿ e il dilemma di Vichy), il problema del pétainismo e le amicizie fasciste della scrittrice è affrontato, con onestà e superando un certo imbarazzo, da un'esperta di cose steiniane, la professoressa Barbara Will.
Collaboratore del filo-nazista «le suis partout», Croix de guerre per le sue attività con la Croce Rossa nella prima guerra mondiale, amico del generale Pétain, maurassiano, cattolico tradizionalista, nonché professore al Collège de France, Bernard Faÿ aveva studiato a Harvard ed era tornato in Francia innamorato dell'America. L'amicizia con Gertrude Stein, dapprima da allievo verso un maestro, diventò presto un'amicizia tra eguali, dal momento che condividevano le stesseidee. Anche su Hitler. Al riguardo, Gertrude Stein non aveva reticenze, «Dovrebbero dargli il Nobel per la pace» dichiarava fine maggio 1943 al «New York Times Mgz.», «ha rimosso dalla Germania tutti gli elementi di contrasto. [...]Cacciando gli ebrei, i democratici e la sinistra, ha espulso dal paese tutto ciò che crea un qualche disturbo (conduce to activity). E ciò vuol dire pace». Per anni la vulgata steiniana aveva considerato quelle parole dettate dall'ironia, ignorando (per sbadatezza?) la testimonianza dell'editore James Laughlin, certamente non fascista anche se annoverava Ezra Pound (ma anche il marxista Louis Zukofski, anche Beckett) tra i suoi autori.
In Europa con la moglie e ospite di Gertrude Stein, Laughlin aveva notato che la scrittrice aveva due tipi di conversazione: monologhi di fronte ad Alice e agli ospiti «normali», la cui funzione era ascoltare in silenzio, e veri e propri dibattiti, fuochi d'artificio, se l'interlocutore era Bernard Faÿ. Su un argomento i due erano d'accordo ed era la politica. «Una sera - ricorderà Laughlin in un articolo sulla «Yale Review» dell'ottobre 1988 - [Gertrude e Bernard] si misero a parlare di Hitler, descrivendolo come un grande uomo, da paragonarsi, forse, con Napoleone. […] La sua persecuzione degli ebrei era ben nota in Francia (was well publicized) e Miss Stein era ebrea. Faÿ, d'altra parte, si era quasi fatto ammazzare dai tedeschi nella seconda guerra mondiale».
Sulle persecuzioni naziste degli ebrei, Stein, in Wars I Have Seen, Barbara Will non manca di annotarlo, si esprime in termini di non facile decrittazione: né tanto per lo stile. «Pubblicità, questo è ciò che li sentiamo dire, pubblicità, e non è quello il vero significato di persecuzione, pubblicità, non è quasi altrettanto complicato come pare. C'è sempre stata una grande passione, nel mondo, per la pubblicità, senz'altro la assai più grande passione per la pubblicità, e quelli che meglio vi riescono, che hanno i migliori istinti per la pubblicità, tendono a essere perseguitati, il che è abbastanza naturale, e questa penso è la vera base delle persecuzioni del popolo eletto».
Sincero ammiratore di Gertrude Stein, Faÿ aiutò a farla conoscere in Francia, dapprima come traduttore, poi come promotore delle traduzioni. Svolse un ruolo anche nell'organizzazione di un trionfale giro di conferenze negli Stati Uniti, nel 1934-35, conclusosi con un'immagine della scrittrice sulla copertina di «Time mgz.». Responsabile della «questione massonica», cioè dell'eliminazione dei massoni, durante Vichy, e in ogni caso personaggio di grande autorità, molto ascoltato dal generale, Faÿ fu il grande protettore della scrittrice anche in quegli anni sinistri. Riuscì a evitare il sequestro dei quadri nell'appartamento di rue de Fleurus (secondo altre fonti una mano l'avrebbe data anche Picasso), fece sì che non fosse molestata dai nazisti nel villaggio dove adesso viveva, tra l'altro evitandole di registrarsi come ebrea, come prevedevano le nuove leggi. Riuscì persino a cancellare il nome di Stein dall'infame «lista Otto», redatta dai nazisti, che conteneva i nomi dei libri da bruciare e degli scrittori ebrei e di quelli che si opponevano al nazismo.
Condannato a morte per collaborazionismo, dopo la guerra, sarebbe riuscito a fuggire riparando in Svizzera, dove trascorse gli ultimi anni.