In quanto uomo, m'impegno ad affrontare il rischio dell'annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo
la loro luce essenziale (Frantz Fanon)

giovedì 30 aprile 2015

LETTERA CON LEZIONE DI METODO

Questa lezione la dedico a un mio allievo in pectore che chiamerò, per rispetto della privacy,  Pollione.

Caro Pollione,
qualche giorno fa, hai dichiarato in un post il tuo orgoglio per aver studiato nella scuola media dedicata a Monsignor Leone Ossola, il vescovo cittadino passato alla storia come defensor civitatis per la sua trattativa del 26 aprile 1945 che indusse tedeschi e fascisti, ormai sconfitti, alla resa senza ulteriori resistenze che avrebbero senz'altro provocato altro spergimento di sangue.
Ti invitavo, tra il srerio e il faceto, a non abbandonarti a facili entusiasmi senza un minimo d'approfondimento e di rifarti un po' a quella cultura del sospetto tanto di moda negli anni 70.
Un libro di Laura Ceci (Il Papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d'Etiopia) mi aveva fatto rizzar le antenne.
Le leggi razziali del 38, sono in parte anticipate, nelle colonie per l'azione di Alessandro Lessona, ministro competente, che fa approvare una legge che punisce severamente ogni tipo di concubinato di un cittadino italiano con «una persona suddita dell'Africa orientale» Ai primi di agosto del 1937 il ministro Lessona chiede al nunzio vaticano in Italia, Francesco Borgongini Duca, un appoggio diretto della Santa Sede alla legislazione razziale, per scongiurare il rischio concreto di una proliferazione dei meticci. Infatti, «disgraziatamente», i figli nati dall'amplesso di uomini bianchi con donne nere «portano sommati i difetti e non i pregi delle due razze». La richiesta arriva a Pio XI, che incarica di un parere il cardinale Domenico Jorio, prefetto della Congregazione dei sacramenti, il quale, il 24 agosto successivo, gli risponde: che la Chiesa avrebbe effettivamente potuto, anzi avrebbe dovuto collaborare — «nei giusti limiti» del diritto canonico — alla campagna per la «sanità della razza». Le «ibride unioni» andavano impedite «per i saggi motivi igienico-sociali intesi dallo Stato»: «la sconvenienza di un coniugio fra un bianco e un negro», e «le accresciute deficienze morali nel carattere della prole nascitura». Tutte le citazioni riportate le trovi anche in un articolo del 5 novembre 2008 di Sergio Luzzatto per il Corriere della Sera, che trovi anche in rete.
Or bene, papa Ratti approva la relazione di Jorio, che viene trasmessa alla nunziatura apostolica il 31 agosto. Il 22 settembre Leone Ossola viene consacrato vescovo e nominato vicario apostolico di Harar, in Etiopia.
Le coincidenze spazio temporali mi avevano allertato e te le ho segnalate, ma tu, saggiamente (hoc post hoc non è hoc propter hoc) mi hai risposto che di per sé significavano poco. Ne convenivo con te, queste congetture sono motivo di ricerca e non la ricerca stessa.
Pensavo, avendoti messa la pulce nell'orecchio, che la facessi tu, comunque io qualcosa ho trovato.
Sempre sul web puoi trovare la tesi di dottorato di Antonio Cataldi, I missionari cattolici italiani nell’Etiopia occupata (1936-1943), molto ben documentata.
Qui apprendiamo (pag. 203) che Ossola aveva iniziato il suo apostolato nel clima di segregazione razziale avviato dalla legge Lessona del 1937, e per evitare inconvenienti con le autorità civili pensò di costituire delle parrocchie separate: quelle per i connazionali, rette da sacerdoti italiani e quelle per gli indigeni rette da sacerdoti indigeni. Qui, a ben vedere, il buon vescovo affronta la questione del concubinaggio con un po' d'eccesso di zelo. Il dubbio deve averlo sfidato, giacché chiede il lumi al cardinale della Propaganda Fide che, sia pur con diplomazia, non esita a correggerlo, consigliando che sarebbe stata buona cosa “dove fosse possibile, la convivenza in una parrocchia di un missionario e di un sacerdote indigeno. Una divisione netta non appare infatti troppo conforme all’affratellamento dei popoli nella carità di Cristo, secondo lo spirito della Chiesa”.
Ossola sembra, in questa occasione, più realista del re, ma nache nei rapporti col clero indigeno, sembra manifestare un concetto di carità molto allineato con le idee correnti di allora, “…Questi benedetti neri non ne vogliono sapere di lavorare: sembra che per essi non esista il verdetto divino in sudore vultus tui verceris pane tuo” (pag. 205).
Vi è però da dire che cercò di appianare le divergenze tra clero locale e missionari, fissando per entrambi un'identica retribuzione per la celebrazione della messa.
Tutta la questione viene comunque affrontata nella I Conferenza dei vescovi cattolici dell'AOI, a cui è presente Ossola, presieduta dall’arcivescovo Giovanni Maria Emidio Castellani, delegato apostolico per l’Africa Orientale Italiana, e arcivescovo di Addis Abeba (17-21 dicembre 1937). Qui, da parte di Venanzio Filippini vicario apostolico di Mogadiscio venne poi sollevata la questione della mescolanza tra bianchi e neri nelle chiese, fino a che punto fosse lecita o se occorreva disciplinarla in qualche modo. La risposta dei vescovi fu collegiale, i quali deliberarono che agli indigeni dovevano essere riservate delle celebrazioni religiose separate, da svolgersi in prima mattinata. Per i bianchi invece -che poi erano al novantanove per cento gli italiani -, andavano riservate delle liturgie in orari più comodi e “meno mattinieri Dai verbali della riunione del 19 dicembre, in cui fu affrontata la questione, non risultano obiezioni manifestate da chicchessia. In quelli del giorno successivo, in cui il vescovo indigeno Mariam Cassa contestò aspramente la decisione, non risultano repliche.
Il giudizio storico di parte cattolica, per il quale gli uomini di chiesa non avrebbero percepito la portata razzista del decreto Lissona, considerandola solo come utile mezzo per la moralizzazione della vita coloniale, sembra smentito proprio dalla decisione dei vescovi, non si comprende bene quale ordine sociale e quale moralità pubblica potevano essere minacciati mai dallo svolgimento di celebrazioni religiose cattoliche in cui partecipavano insieme bianchi e neri. (pp. 303-309).
I vescovi dell'Africa Orientale Italiana (Ossola compreso) sono dunque propensi a un'interpretazione estensiva del decreto Lissona.
Nè si può invocare a difesa la prudenza nei confronti del regime, perché, su altre questioni, dimostrano, invece, una ben diversa elasticitò di giudizio.
Il ministro Lissona ha diramato anche un regolamento sull'insegnamento religioso nelle scuole, dove aveva previsto, all’interno della strategia governativa di distensione verso gli ortodossi e i musulmani, di offrire ai religiosi delle due confessioni la possibilità di catechizzare nel proprio credo quegli alunni provenienti da famiglie ortodosse od islamiche.
Ma su questo, i vescovi riuniti non hanno tema di contrastare il regime. Afferma, infatti l'arcivescovo: “… bisogna curare che le disposizioni del Regolamento Lessona riguardante l’insegnamento catechistico della rispettiva religione nella lingua materna, restino lettera morta … per i copti vi sono le loro chiese dove possono essere istruiti senza che uno scismatico sia ammesso alle nostre scuole, e per i mussulmani vi sono le loro moschee” (pp. 312-313).
Insomma, due pesi e due misure.
E questo è, per ora, tutto. Certo, tutto va contestualizzato nella cultura del tempo e non giudicato con il metro della nostra attuale sensibilità e dunque quel poco che ora sappiamo di più non basta per mutare in denigrazione il giudizio su Leone Ossola, così come quel pochissimo che se ne sapeva prima non bastava per la sua esaltazione.
Direi che la lezione che ne segue è che, prima di azzardare giudizi netti, bisogna fare la fatica di cercarsi e leggersi le carte.
Certe volte non cìè neanche bisogno di andarle a cercare, sono sotto gli occhi.