In quanto uomo, m'impegno ad affrontare il rischio dell'annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo
la loro luce essenziale (Frantz Fanon)

nani sulle spalle di nani

INNOVAZIONE TECNOLOGICA E BORGHESIA NAZIONALE AVIDA E MIOPE
Marcegaglia, Montezemolo, Della Valle & Co. vogliano comprare (per poco) tutto, e tutto dirigere. Bebè cresciuti, vogliono prendere le distanze da una vecchia tata, lo Stato, ormai rimbambita.
A parte il fatto che è poco decoroso rinnegare la vecchia balia – per nulla asciutta – che tante volte ha pulito loro il culo e che a intervalli regolari li ha ristorati con generose poppate, resta anche il fatto che, nel corso del tempo, la borghesia industriale italiana non ha dato miglior prova di saper fare.
Storicamente nata per promuovere, pur facendo i propri interessi, gli interessi comuni, la borghesia ha, nella sua versione nazionale, fatto cilecca, per il surplus di avidità che la caratterizza e che le ha impedito di svolgere una qualsiasi funzione nazionale.
Scambiando la tattica con la strategia e guidato dalla parola d’ordine dell’arraffi chi può, il padronato italiano è il primo responsabile del declino del Paese e di una precoce finanziarizzazione dell’economia, perseguita mediante il sistematico saccheggio delle risorse pubbliche.
Avevano un compito storico: trasformare in merce e denaro quella che un tempo si chiamava l’attività dello Spirito. E in tale compito hanno fallito, sin dall'inizio e fino alla fine.
Nel 1865 la stampa valdostana dà notizia della sorprendente invenzione di Vincenzo Manzetti: suoni prodotti da una apparecchio alla stazione di partenza possono riprodursi alla stazione di arrivo. È il telefono, con anni di anticipo su Meucci (1871) e Bell (1876).
Al Regno d’Italia è stata estesa la legge piemontese del 1855 che tutela i brevetti, superando, in parte, il precedente regime dei privilegi, di cui mantiene il criterio di discrezionalità. La legge è nata più a tutela dei consumatori che a salvaguardia dei diritti degli inventori. Si teme, anzi, che le loro pretese possano danneggiare gli interessi delle nascenti industrie, per cui, in ogni caso, garantiscono una salvaguardia solo temporanea.
Nulla di strano, quindi, che gli inventori vi ricorrano raramente e che non siano incoraggiati a farlo. D’altra parte, come commenta, proprio a proposito del Manzetti, il Feuille d’Aoste, non siamo in altri paesi, dove i titoli di ministro della pubblica istruzione, di ministro dell'agricoltura, del commercio, delle arti e dell'industria, non sono vani e menzogneri come in Italia, ma significano incoraggiamento e vera protezione della scienza e delle arti.
L’invenzione non sarà dunque tutelata e nel 1880, dopo la morte prematura dell’inventore, si presenta alla vedova, proveniente dagli Stati Uniti, Horace H. Eldred, presidente della Bell Telephone Company del Missouri, che acquista, per una cifra favolosa – che non verrà mai corrisposta – tutti i progetti e i prototipi del defunto, impegnandosi a fargli riconoscere la paternità dell’invenzione negli USA.
Tornato in patria, Eldred registra a suo nome, sulla base dei progetti di Manzetti, congegni di perfezionamento dell’apparecchio telefonico.
A quanto pare l’invenzione del valdostano non aveva suscitato in patria nessun interesse industriale, eppure in quegli stessi anni, sorge a Pont St. Martin la Società anonima italiana miniere di rame ed elettrometallurgia, che più tardi, assunto l’acronimo SIP, si occuperà molto di telecomunicazioni.
Antonio Pacinotti, cinque anni prima, aveva realizzato il prototipo di un apparecchio destinato a diventare famoso col nome di dinamo. Conscio dell’importanza della sua invenzione, Pacinotti cerca invano di trovare uno sponsor industriale in Italia.
L’occasione buona sembra, invece, capitargli in Belgio, durante una visita alle officine elettromeccaniche Froment. Il fisico italiano descrive quindi minuziosamente la sua macchina al titolare, Dumoulin e al capo officina, Zènobe Gramme, che la brevetterà a proprio nome nel 1869. Pacinotti è pisano, e nel 1866, nella vicina Firenze, erano state fondate le Officine Galileo, che presto cominceranno a operare nel settore elettromeccanico.
Nel 1885 Galileo Ferraris scopre il campo magnetico rotante, ponendo le premesse della realizzazione del motore asincrono. La ricerca è condotta con povertà di mezzi e si perfeziona con un ritardo di cui si avvantaggeranno Tesla – che si avvale dei mezzi della Edison Machine Works, e la Westinghouse. Anche quando i diritti di Ferraris verranno riconosciuti, a sfruttarli industrialmente non sarà un’industria italiana, ma la tedesca AEG.
Ad ascoltare le conferenze di Galileo Ferraris c’è anche un giovane autodidatta, Alessandro Cruto.
Cruto fa il muratore, ma ha la passione delle invenzioni, e nel suo artigianale laboratorio, nel marzo del 1880, inventa la lampadina. Purtroppo, però, l’ha già inventata Edison cinque mesi prima.
La lampadina di Cruto è comunque migliore, durando circa 500 ore contro le 40 di quella di Edison e questa differenza potrebbe essere sfruttata sul mercato. Ma gli industriali italiani del settore (Clerici, Marelli) ritengono più economico sfruttare il brevetto Edison che fare gli investimenti necessari per produrre il concorrenziale prodotto nazionale. Saranno sbaragliati dai produttori stranieri (Philips, Osram).
La seconda rivoluzione industriale è caratterizzata, oltre che dallo sfruttamento dell’elettricità, dall’introduzione del motore a scoppio.
Qui l’Italia è in posizione di vantaggio, Eugenio Barsanti e Felice Matteucci hanno depositato il relativo brevetto fin dal 1859.
Anche in questo caso al disinteresse governativo si associa lo scarso intuito della borghesia industriale. La società anonima che costituiscono a Firenze ha, infatti, insufficiente capitalizzazione, e le autorità statali saranno sostanzialmente latitanti, quando si tratterà di difendere la priorità dell’invenzione sul piano internazionale.
Tutto il contrario, per Étienne Lenoir, che può contare sul protagonismo sciovinista del Secondo Impero e soprattutto sul fiuto degli investitori francesi, che sottoscrivono azioni per due milioni di franchi.
Nel 1860 Lenoir presenta un motore che, per scarso rendimento, gli inventori italiani hanno già scartato nel 1853. Il congegno viene accolto con clamore dall’opinione pubblica internazionale e la dimostrata paternità di Barsanti e Matteucci viene ignorata.
Dopo la morte di Barsanti (1864), Matteucci tenta ancora, tra mille difficoltà, la difesa del brevetto e la commercializzazione dell’invenzione, ma deve arrendersi ben presto.
Per la costruzione dei prototipi, i due scienziati toscani si erano affidati alle officine fiorentine del Pignone e all’Ansaldo di Sampierdarena, che naturalmente si guardano bene dal diventar partner dell’impresa industriale.
Fallita, per un pelo, la possibilità di doppiare in posizione dominante la seconda rivoluzione industriale, l’Italia sembra avere una buona chance per guidare un successivo balzo in avanti tecnologico.
Alla Fiera Campionaria di Milano del 1957, Olivetti presenta l’Elea 9003, con design di Ettore Sottsass. È il primo calcolatore mainframe completamente transistorizzato, a differenza del concorrente modello Siemens, che utilizza ancora valvole. Solo nel novembre 1959 la IBM presenterà qualcosa di analogo.
È aperta la strada che condurrà al PC e l’’azienda di Ivrea investe in questa prospettiva.
Nel 1963 si chiude il ciclo espansivo del boom e comincia una fase depressiva accompagnata da alti tassi di inflazione. Per molte imprese diventa difficile finanziarsi.
Eppure in Italia sono a spasso, improduttivi, gli oltre 2000 miliardi di lire degli indennizzi per la nazionalizzazione del comparto elettrico.
Questi soldi sono stati dati, tutti e subito, grazie alle bizze di Guido Carli (governatore della Banca d’Italia, un’organizzazione padronale che molti si ostinano a confondere con la Croce Rossa), non agli azionisti, ma ai manager, per stimolarne la vocazione imprenditoriale.
L’occasione è buona, ma i miliardi degli ex padroni elettrici non finiranno all’Olivetti in crisi di liquidità.
Ci penserà, invece, Mediobanca, che porrà delle condizioni suggerite dal proverbiale acume di Vittorio Valletta. Il tutore della Fiat ritiene, infatti, l’Olivetti un’azienda sana, che ha commesso l’errore di estendersi a un settore senza futuro: l’elettronica.
L’azienda di Ivrea viene dunque finanziata per continuare a produrre macchine da scrivere e calcolatrici, mentre l’elettronica è ceduta alla General Electric.
Questo è il pedigree di chi si candida oggi al ruolo di guida del Paese, ma la fitta nebbia che è calata sul futuro sconsiglia l’utilizzo di autisti tanto miopi.