L'assassino è il maggiordomo
Il primo romanzo giallo in cui l'assassino è il maggiordomo è The door, 1930 (L'incubo, 1933) |
Da
dove origina questa espressione? In ogni caso serve a denotare un
cattivo libro giallo, in cui il colpevole non è legato alla vittima
da vincoli familiari, sentimentali o sociali. Estraneo a questa
cerchia ristretta e al suo intreccio di relazioni forti, un siffatto
colpevole ha anche, in genere, un movente banale e comunque avulso
dalla trama intessuta dall'indagine.
Per
questo, nell'undicesima delle sue venti regole per un buon romanzo
poliziesco (1928), S. S, Van Dine sconsiglia di scegliere come
colpevole un domestico.
Deludente
nella fiction, questa soluzione è quella che si preferisce
nella vita reale, dove un maggiordomo, possibilmente cinese, preserva
– con la sua colpevolezza – l'integrità di un ambiente che si
vorrebbe così tanto conosciuto, da non destar sorprese.
Talvolta,
come nel delitto dell'Olgiata, questa eventualità si realizza quasi
alla lettera, ma il più delle volte, il dna sulla scena del delitto
circoscrive la ricerca in un ambito dannatamente ristretto.
Nel
dopoguerra, le dinamiche migratorie erano praticamente a zero e non
ci furono i presupposti per addebitare a una colf magrebina, o per lo
meno calabrese, la strage orrenda che il fiuto di Nardone mise
debitamente in conto a Rina Fort, settentrionalissima assassina di
vittime meridionali.
In
questi casi, allora, l'assassino diventa il mostro,
viene cioè espulso dall'intera comunità umana, per poter essere
radiato dai ranghi della più ristretta comunità in cui lo iscrivono
cittadinanza, appartenenza sociale e legami famigliari.
Libera
nos a malo, dove quel nos
parla chiaro, è la comunita,
l'ecclesia, che invoca
– quale erede diretta – quelle quarentigie che furono già del
popolo eletto.
Eppure
il primo delitto avvenne proprio in famiglia, fra parenti stretti.
Forse lo abbiamo rimosso anche in virtù delle circostanze anomale in
cui si svolse.
In
quella occasione, infatti, fu uno stanziale agricoltore a sopprimere
un pastore nomade.
Siamo
abituati a immaginarci il contrario.
Caino
e Abele sono, ovviamente, la metafora del passaggio dalla civiltà
nomade a quella stanziale, ma il testo biblico sottolinea il fatto
che l'umanità, stabile o vagabonda, è sempre una, di un unico
ceppo.
Sul
fratricidio, il mito ci torna spesso, legandolo più esplicitamente
alle nozioni di confine e di intrusione. E se per i rozzi Romani è
pacifica la legittimità dell'agire di Romolo, per il più maturo
pensiero della tragedia greca, la reciproca uccisione, alla settima
porta, di Eteocle e Polinice sancisce una comunità di destino che
allude a una parità di ragioni, ovvero alla relativizzazione
dell'opposizione interno/esterno.
Caino e Abele, mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, XII sec. |
Questa
acquisizione precoce, da parte di quella stessa civiltà che aveva
inventato nome e concetto di barbarie,
poteva
far sperare in un celere abbandono delle pastoie della scelta
biunivoca tra le concentriche declinazioni delle definizioni di noi e
degli altri, ma per gli interessi della storia, questa polarità era
troppo utile e pertanto è rimasta, a tutt'oggi, una struttura fissa
del pensiero.
D'altra parte, essa si instaura su una base bio-fisiologica. Alla indistinta fusione con l'ambiente del neonato seguono differenziazioni sempre più complesse, fino a giungere a una matura e sofisticata socializzazione che distingue famiglia nucleo, famiglia allargata, amici di famiglia, ambiente scolastico...
È una vera e propria cosmogonia in cui, a partire dal caos originario, si ordina l'universo. In un tale processo – a partire da Esiodo – sono funzionali coppie oppositive, in una sorta di manicheismo metodologico, che solo molto più avanti approderà al monismo.
Ma anche quando si arriverà al'acquisizione che non esiste la contrapposizione qualitativa tra la forza del caldo e quella del freddo, ma solo la variazione quantitativa di calore, la coppia originaria (e la sua contrapposizione) rimarrà operativa, nel linguaggio quotidiano come nella psiche.
Alla natura si associa la cultura: elementari regole di prudenza rinforzeranno, durante la crescita, l'opposizione tra un ambiente domestico, conosciuto e sicuro, e un mondo esterno sconosciuto e infido.
A ciò si aggiunga che l'antagonismo tra bene e male è un espediente pressoché ineliminabile della narrativa, ragion per cui, a partire dalla prima infanzia, si diffonde tutta un'orchestrazione di diffidenze e paure.
La letteratura infantile classica, con le sue contese tra lupi e agnelli, o porcellini, o bambine imprudenti, non è tutta da buttar via, qualche dubbio lo semina, infatti per Pollicino il pericolo si annida in famiglia, come pure per Biancaneve, che nel cuore del bosco troverà rifugio e salvezza proprio presso dei diversi.
Indubbiamente, su molti elementi inquietanti delle favole – come il lupo – la successiva esperienza nel reale non mancherà di modificare l'immagine originaria, ma altre – l'orco, ad esempio – non verranno più incontrate e rimarranno integre, da qualche parte, a disposizione per angosciose proiezioni.
È invece per la fascia d'età immediatamente successiva che il messaggio si semplifica e si generalizza pericolosamente.
Ciò che segue, l'evoluzione nel tempo del western come itinerario di educazione interculturale, riguarda soprattutto chi, come me, è cresciuto negli anni 60, ma lo schema può essere facilmente applicato anche all'horror o alla fantascienza:
Come si può vedere, c'è una costante, su base etnica, nell'assegnazione dei ruoli, il nucleo di massa – positivo e negativo – è fisso e solo le variazioni sono individuali.
Quando finalmente si capovolgono i ruoli (Soldato blu), siamo già nel 1970 e io, come molti, ormai mi disinteresso al genere.
Torniamo al poliziesco, la banda di Stan il polacco ricorre più volte nelle inchieste di Maigret, caratterizzata da sanguinarie efferatezze, un genere a cui, di solito, Simenon non indulge.
Certamente Simenon non è immune dai pregiudizi del suo tempo, anzi, si può dire che li utilizzi tutti, ma filtrati attraverso la personalità del suo alter ego, Maigret, che, da buon medico di anime, non si adagia mai completamente sulla morale borghese.
In questo caso, però, sembra evidente l'identificazione con una generalizzazione di senso comune: polacco = sanguinario.
In questo caso, Simenon, che trae spunto, per molti dei suoi romanzi, da reali vicende di cronaca, è buon testimone della propria contemporaneità e rispecchia fedelmente uno stato d'animo diffuso nel'opinione pubblica francese degli anni trenta.
Lo abbiamo visto di recente dalle nostre parti, quando, in Veneto e altrove, sono entrate in azione, con particolare ferocia, bande di malfattori provenienti dall'est europeo.
Ciò ha indotto, negli strati più indifesi dell'opinione pubblica, un'indebita identificazione tra albanesi prima e rumeni poi e criminalità.
L'origine etnica, naturalmente, non c'entra per niente. Se mai si possono fare altre considerazioni.
La maggior parte degli autori di questi delitti è analfabeta, o quasi, e proviene da zone rurali di agricoltura di consumo e pastorizia.
La scarsa cultura ed il mestiere non sono, di per sé, determinanti, ma è evidente che in aree in cui la sopravvivenza deriva dai capi di bestiame, e l'abigeato è endemico, la vita altrui – in assenza di mediazioni culturali – si valuta in pecore.
Questa deflazione del valore della vita ci viene confermata dalle nostre statistiche criminali nazionali, per tutte quelle regioni in cui l'accoppiata scarsa alfabetizzazione/pastorizia ha avuto storicamente rilievo.
E infatti anche l'emigrazione italiana al'estero, come quella albanese, rumena o polacca, non è stata indolore, né esente da diffidenti generalizzazioni.
Abele si vendica, si potrebbe dire, ed eccoci tornati al punto di partenza.
In questo percorso abbiamo brevemente scomodato la natura e la cultura per mettere a fuoco quella convergenza di fattori alla base di un complesso sistema di sensibilità e sentimenti, che sarebbe riduttivo liquidare come semplice razzismo.
Ma se poi, infine, di razzismo ben si trattasse, come si vede esso è talmente ben radicato, da non potersi eliminare con un semplice appello alla volontà, né – men che mai – con l'utilizzo di strumenti legislativi ad hoc, che non farebbero che rafforzarlo.
Questa, comunque, è solo una prima ricognizione sul problema, bisognerà tornarci su.
È una vera e propria cosmogonia in cui, a partire dal caos originario, si ordina l'universo. In un tale processo – a partire da Esiodo – sono funzionali coppie oppositive, in una sorta di manicheismo metodologico, che solo molto più avanti approderà al monismo.
Ma anche quando si arriverà al'acquisizione che non esiste la contrapposizione qualitativa tra la forza del caldo e quella del freddo, ma solo la variazione quantitativa di calore, la coppia originaria (e la sua contrapposizione) rimarrà operativa, nel linguaggio quotidiano come nella psiche.
Alla natura si associa la cultura: elementari regole di prudenza rinforzeranno, durante la crescita, l'opposizione tra un ambiente domestico, conosciuto e sicuro, e un mondo esterno sconosciuto e infido.
A ciò si aggiunga che l'antagonismo tra bene e male è un espediente pressoché ineliminabile della narrativa, ragion per cui, a partire dalla prima infanzia, si diffonde tutta un'orchestrazione di diffidenze e paure.
La letteratura infantile classica, con le sue contese tra lupi e agnelli, o porcellini, o bambine imprudenti, non è tutta da buttar via, qualche dubbio lo semina, infatti per Pollicino il pericolo si annida in famiglia, come pure per Biancaneve, che nel cuore del bosco troverà rifugio e salvezza proprio presso dei diversi.
Indubbiamente, su molti elementi inquietanti delle favole – come il lupo – la successiva esperienza nel reale non mancherà di modificare l'immagine originaria, ma altre – l'orco, ad esempio – non verranno più incontrate e rimarranno integre, da qualche parte, a disposizione per angosciose proiezioni.
È invece per la fascia d'età immediatamente successiva che il messaggio si semplifica e si generalizza pericolosamente.
Ciò che segue, l'evoluzione nel tempo del western come itinerario di educazione interculturale, riguarda soprattutto chi, come me, è cresciuto negli anni 60, ma lo schema può essere facilmente applicato anche all'horror o alla fantascienza:
- bianchi buoni Vs indiani cattivi (John Wayne);
- bianchi e indiani buoni Vs indiani cattivi (Penna di Falco, );
- bianchi buoni e indiani buoni Vs indiani cattivi e bianchi cattivi (Tex).
Come si può vedere, c'è una costante, su base etnica, nell'assegnazione dei ruoli, il nucleo di massa – positivo e negativo – è fisso e solo le variazioni sono individuali.
Quando finalmente si capovolgono i ruoli (Soldato blu), siamo già nel 1970 e io, come molti, ormai mi disinteresso al genere.
Torniamo al poliziesco, la banda di Stan il polacco ricorre più volte nelle inchieste di Maigret, caratterizzata da sanguinarie efferatezze, un genere a cui, di solito, Simenon non indulge.
Certamente Simenon non è immune dai pregiudizi del suo tempo, anzi, si può dire che li utilizzi tutti, ma filtrati attraverso la personalità del suo alter ego, Maigret, che, da buon medico di anime, non si adagia mai completamente sulla morale borghese.
In questo caso, però, sembra evidente l'identificazione con una generalizzazione di senso comune: polacco = sanguinario.
In questo caso, Simenon, che trae spunto, per molti dei suoi romanzi, da reali vicende di cronaca, è buon testimone della propria contemporaneità e rispecchia fedelmente uno stato d'animo diffuso nel'opinione pubblica francese degli anni trenta.
Lo abbiamo visto di recente dalle nostre parti, quando, in Veneto e altrove, sono entrate in azione, con particolare ferocia, bande di malfattori provenienti dall'est europeo.
Ciò ha indotto, negli strati più indifesi dell'opinione pubblica, un'indebita identificazione tra albanesi prima e rumeni poi e criminalità.
L'origine etnica, naturalmente, non c'entra per niente. Se mai si possono fare altre considerazioni.
La maggior parte degli autori di questi delitti è analfabeta, o quasi, e proviene da zone rurali di agricoltura di consumo e pastorizia.
La scarsa cultura ed il mestiere non sono, di per sé, determinanti, ma è evidente che in aree in cui la sopravvivenza deriva dai capi di bestiame, e l'abigeato è endemico, la vita altrui – in assenza di mediazioni culturali – si valuta in pecore.
Questa deflazione del valore della vita ci viene confermata dalle nostre statistiche criminali nazionali, per tutte quelle regioni in cui l'accoppiata scarsa alfabetizzazione/pastorizia ha avuto storicamente rilievo.
E infatti anche l'emigrazione italiana al'estero, come quella albanese, rumena o polacca, non è stata indolore, né esente da diffidenti generalizzazioni.
Abele si vendica, si potrebbe dire, ed eccoci tornati al punto di partenza.
In questo percorso abbiamo brevemente scomodato la natura e la cultura per mettere a fuoco quella convergenza di fattori alla base di un complesso sistema di sensibilità e sentimenti, che sarebbe riduttivo liquidare come semplice razzismo.
Ma se poi, infine, di razzismo ben si trattasse, come si vede esso è talmente ben radicato, da non potersi eliminare con un semplice appello alla volontà, né – men che mai – con l'utilizzo di strumenti legislativi ad hoc, che non farebbero che rafforzarlo.
Questa, comunque, è solo una prima ricognizione sul problema, bisognerà tornarci su.