In quanto uomo, m'impegno ad affrontare il rischio dell'annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo
la loro luce essenziale (Frantz Fanon)

venerdì 20 giugno 2014

la paura dell'altro e il razzismo (1)

L'assassino è il maggiordomo

Il primo romanzo giallo in cui l'assassino è il maggiordomo è The door, 1930 (L'incubo, 1933)
Da dove origina questa espressione? In ogni caso serve a denotare un cattivo libro giallo, in cui il colpevole non è legato alla vittima da vincoli familiari, sentimentali o sociali. Estraneo a questa cerchia ristretta e al suo intreccio di relazioni forti, un siffatto colpevole ha anche, in genere, un movente banale e comunque avulso dalla trama intessuta dall'indagine.
Per questo, nell'undicesima delle sue venti regole per un buon romanzo poliziesco (1928), S. S, Van Dine sconsiglia di scegliere come colpevole un domestico.
Deludente nella fiction, questa soluzione è quella che si preferisce nella vita reale, dove un maggiordomo, possibilmente cinese, preserva – con la sua colpevolezza – l'integrità di un ambiente che si vorrebbe così tanto conosciuto, da non destar sorprese.
Talvolta, come nel delitto dell'Olgiata, questa eventualità si realizza quasi alla lettera, ma il più delle volte, il dna sulla scena del delitto circoscrive la ricerca in un ambito dannatamente ristretto.
Nel dopoguerra, le dinamiche migratorie erano praticamente a zero e non ci furono i presupposti per addebitare a una colf magrebina, o per lo meno calabrese, la strage orrenda che il fiuto di Nardone mise debitamente in conto a Rina Fort, settentrionalissima assassina di vittime meridionali.


In questi casi, allora, l'assassino diventa il mostro, viene cioè espulso dall'intera comunità umana, per poter essere radiato dai ranghi della più ristretta comunità in cui lo iscrivono cittadinanza, appartenenza sociale e legami famigliari.
Libera nos a malo, dove quel nos parla chiaro, è la comunita, l'ecclesia, che invoca – quale erede diretta – quelle quarentigie che furono già del popolo eletto.
Eppure il primo delitto avvenne proprio in famiglia, fra parenti stretti. Forse lo abbiamo rimosso anche in virtù delle circostanze anomale in cui si svolse.
In quella occasione, infatti, fu uno stanziale agricoltore a sopprimere un pastore nomade.
Siamo abituati a immaginarci il contrario.
Caino e Abele sono, ovviamente, la metafora del passaggio dalla civiltà nomade a quella stanziale, ma il testo biblico sottolinea il fatto che l'umanità, stabile o vagabonda, è sempre una, di un unico ceppo.
Sul fratricidio, il mito ci torna spesso, legandolo più esplicitamente alle nozioni di confine e di intrusione. E se per i rozzi Romani è pacifica la legittimità dell'agire di Romolo, per il più maturo pensiero della tragedia greca, la reciproca uccisione, alla settima porta, di Eteocle e Polinice sancisce una comunità di destino che allude a una parità di ragioni, ovvero alla relativizzazione dell'opposizione interno/esterno.
Caino e Abele, mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, XII sec.
Questa acquisizione precoce, da parte di quella stessa civiltà che aveva inventato nome e concetto di barbarie, poteva far sperare in un celere abbandono delle pastoie della scelta biunivoca tra le concentriche declinazioni delle definizioni di noi e degli altri, ma per gli interessi della storia, questa polarità era troppo utile e pertanto è rimasta, a tutt'oggi, una struttura fissa del pensiero.
D'altra parte, essa si instaura su una base bio-fisiologica. Alla indistinta fusione con l'ambiente del neonato seguono differenziazioni sempre più complesse, fino a giungere a una matura e sofisticata socializzazione che distingue famiglia nucleo, famiglia allargata, amici di famiglia, ambiente scolastico...
È una vera e propria cosmogonia in cui, a partire dal caos originario, si ordina l'universo. In un tale processo – a partire da Esiodo – sono funzionali coppie oppositive, in una sorta di manicheismo metodologico, che solo molto più avanti approderà al monismo.
Ma anche quando si arriverà al'acquisizione che non esiste la contrapposizione qualitativa tra la forza del caldo e quella del freddo, ma solo la variazione quantitativa di calore, la coppia originaria (e la sua contrapposizione) rimarrà operativa, nel linguaggio quotidiano come nella psiche.
Alla natura si associa la cultura: elementari regole di prudenza rinforzeranno, durante la crescita, l'opposizione tra un ambiente domestico, conosciuto e sicuro, e un mondo esterno sconosciuto e infido.
A ciò si aggiunga che l'antagonismo tra bene e male è un espediente pressoché ineliminabile della narrativa, ragion per cui, a partire dalla prima infanzia, si diffonde tutta un'orchestrazione di diffidenze e paure.
La letteratura infantile classica, con le sue contese tra lupi e agnelli, o porcellini, o bambine imprudenti, non è tutta da buttar via, qualche dubbio lo semina, infatti per Pollicino il pericolo si annida in famiglia, come pure per Biancaneve, che nel cuore del bosco troverà rifugio e salvezza proprio presso dei diversi.
Indubbiamente, su molti elementi inquietanti delle favole  come il lupo – la successiva esperienza nel reale non mancherà di modificare l'immagine originaria, ma altre – l'orco, ad esempio – non verranno più incontrate e rimarranno integre, da qualche parte, a disposizione per angosciose proiezioni.
È invece per la fascia d'età immediatamente successiva che il messaggio si semplifica e si generalizza pericolosamente.
Ciò che segue, l'evoluzione nel tempo del western come itinerario di educazione interculturale, riguarda soprattutto chi, come me, è cresciuto negli anni 60, ma lo schema può essere facilmente applicato anche all'horror o alla fantascienza:

  • bianchi buoni Vs indiani cattivi (John Wayne);
  • bianchi e indiani buoni Vs indiani cattivi (Penna di Falco, );
  • bianchi buoni e indiani buoni Vs indiani cattivi e bianchi cattivi (Tex).

Come si può vedere, c'è una costante, su base etnica, nell'assegnazione dei ruoli, il nucleo di massa  positivo e negativo  è fisso e solo le variazioni sono individuali.
Quando finalmente si capovolgono i ruoli (Soldato blu), siamo già nel 1970 e io, come molti, ormai mi disinteresso al genere.  
Tex con Tiger Jack e Mandrake con Lothar, anche quando è positivo, l'altro è sempre subalterno. Deadwood Dick, il cow boy protagonista, accanto a Calamity Jane, di un numero impressionante di romanzi popolari americani, nella realtà era nero, ma nella finzione letteraria, bianco. 
Notiamo anche, che nel caso in oggetto, in realtà sono gli indiani a essere a casa loro e i bianchi gli invasori. Le storie, però, si leggono dal punto di vista di chi le scrive e nei western, prima del film di Ralph Nelson, non si vedranno mai attacchi a villaggi indiani, bensì a carovane dei coloni, a fattorie, a fortini, onde invertire, nello spettatore, la percezione di interno e esterno.


Torniamo al poliziesco, la banda di Stan il polacco ricorre più volte nelle inchieste di Maigret, caratterizzata da sanguinarie efferatezze, un genere a cui, di solito, Simenon non indulge.

Certamente Simenon non è immune dai pregiudizi del suo tempo, anzi, si può dire che li utilizzi tutti, ma filtrati attraverso la personalità del suo alter ego, Maigret, che, da buon medico di anime, non si adagia mai completamente sulla morale borghese.
In questo caso, però, sembra evidente l'identificazione con una generalizzazione di senso comune: polacco = sanguinario.
In questo caso, Simenon, che trae spunto, per molti dei suoi romanzi, da reali vicende di cronaca, è buon testimone della propria contemporaneità e rispecchia fedelmente uno stato d'animo diffuso nel'opinione pubblica francese degli anni trenta.
Lo abbiamo visto di recente dalle nostre parti, quando, in Veneto e altrove, sono entrate in azione, con particolare ferocia, bande di malfattori provenienti dall'est europeo.
Ciò ha indotto, negli strati più indifesi dell'opinione pubblica, un'indebita identificazione tra albanesi prima e rumeni poi e criminalità.
L'origine etnica, naturalmente, non c'entra per niente. Se mai si possono fare altre considerazioni.
La maggior parte degli autori di questi delitti è analfabeta, o quasi, e proviene da zone rurali di agricoltura di consumo e pastorizia.
La scarsa cultura ed il mestiere non sono, di per sé, determinanti, ma è evidente che in aree in cui la sopravvivenza deriva dai capi di bestiame, e l'abigeato è endemico, la vita altrui – in assenza di mediazioni culturali  si valuta in pecore.
Questa deflazione del valore della vita ci viene confermata dalle nostre statistiche criminali nazionali, per tutte quelle regioni in cui l'accoppiata scarsa alfabetizzazione/pastorizia ha avuto storicamente rilievo.
E infatti anche l'emigrazione italiana al'estero, come quella albanese, rumena o polacca, non è stata indolore, né esente da diffidenti generalizzazioni.
Abele si vendica, si potrebbe dire, ed eccoci tornati al punto di partenza.

In questo percorso abbiamo brevemente scomodato la natura e la cultura per mettere a fuoco quella convergenza di fattori alla base di un complesso sistema di sensibilità e sentimenti, che sarebbe riduttivo liquidare come semplice razzismo.
Ma se poi, infine, di razzismo ben si trattasse, come si vede esso è talmente ben radicato, da non potersi eliminare con un semplice appello alla volontà, né – men che mai  con l'utilizzo di strumenti legislativi ad hoc, che non farebbero che rafforzarlo.
Questa, comunque, è solo una prima ricognizione sul problema, bisognerà tornarci su.