Luigi Russo (1892-1961), uomo di cultura coerentemente antifascista e autenticamente democratico (nel dopoguerra militò nel partito d'azione e si candidò, come indipendente, nelle file del PCI nelle elezioni del '48), nel 1946 fonda una sua rivista, Belfagor, tuttora in corso.
Nel primo numero, Russo pubblica un saggio, I giovani nel venticinquennio fascista, nel quale, tra l'altro, ripercorre le sue prime esperienze politiche all'indomani della grande guerra.
Con altri giovani intellettuali, reduci come lui dalle trincee del Carso, Russo vuol reagire contro il brutto spettacolo offerto dalla politica di quel tempo, impantanata nella paralizzante palude di un parlamentarismo autoreferenziale che ha perso di vista il bene comune, polverizzando la propria attività nella difesa di interessi particolari.
Volevano, dunque, combattere la vecchia corruttela parlamentare ... il che non significa combattere il parlamento.
Il nemico da battere è il paglietta, il vecchio spicciafaccende della vita sociale del meridione: in genere un avvocatucolo senza clienti, che tira a campare mettendo la sua cultura, superficiale e di largo impiego, al servizio degli strati ignoranti, ma in qualche modo abbienti, della popolazione, aiutandola a districarsi nel labirinto di iter e forme in cui si sostanzia la nostra concezione del diritto.
Codesti paglietta, cui dedica qualche attenzione anche Gramsci, hanno afferrato al balzo l'occasione di promozione sociale offerta dal sistema elettorale uninominale, e sono andati ad affollare le aule del parlamento.
Sono dunque personaggi di origine servile - tirapiedi di paese del mastrodongesualdo locale - che assurgono - magari con i voti dei salariati dell'arricchito capomastro - a un ruolo e a uno status immeritato, che li determina come ontologicamente odiosi per la prepotente prosopopea che assumono, in virtù della nuova carica, nei confronti della gente comune; un atteggiamento teso ad occultare il perdurare della loro funzione di domestici del potere forte che ha determinato la loro fortuna.
Vien da sé che il pensiero corre, oggi, a quella macchietta dell'onorevole Scilipoti, o alle tante puttane del padrone di prima, così generosamente disseminate nelle assemblee elettive. ma un pensierino potrebbe anche essere riservato a quei camerieri delle grande banche che, per accedere alle leve del comando, non hanno neppure dovuto utilizzare la finzione elettorale.
C'era, come c'è, un problema di casta politica (il termine ha assunto una denotazione negativa, ma riprende il concetto di classe politica di Gaetano Mosca, dove il termine classe si prestava a confusioni sociologiche), per cui, era una democrazia che favoriva gli individui a scapito degli istituti, cioè gli interessi particolari a discapito di quelli generali, e anche qui l'analogia con l'oggi è scontata.
Per reagire a tale sconfortante stato di cose, un gruppo di ex combattenti, tra cui Russo, fonda a Vicenza la rivista Volontà, diretta da Vincenzo Torraca, che si trasferirà successivamente a Roma.
Cosa propugnano in tale rivista i dotti, ma ingenui, redattori? Volevamo rimettere in onore la tecnica della competenza.
Di fronte alla deriva oligarchica della democrazia dell'italietta, i giovani critici individuano il rimedio nella tecnocrazia. Alla generica tecnica politica dei paglietta (ovvero al padroneggiamento di quel linguaggio specifico, che oggi si avvale dell'orrendo neopatronimico di politichese) si vuole opporre la competenza in tecniche specifiche.
È evidente che tale situazione non risolve il problema della democrazia perché, anche dando per scontata, dove scontata non è, la pretesa neutralità della scienza, è poi l'uso che se ne fa che ne determina gli esiti politici (mille lire, infatti, si ottengono sia tassando di dieci lire cento ricchi, sia tassando di una lira mille poveri).
Forse, però, i giovani di Volontà volevano, con questo escamotage, introdurre una sorta di selezione della classe politica, eliminando alla partenza quei generici arruffapopoli senz'arte né parte, di cui si è detto.
Vedremo poi se questa strada è praticabile, per intanto è importante decidere se anche quei volonterosi giovani , per la loro parte, contribuirono a screditare e indebolire l'idea stessa di sistema parlamentare, di cui, di lì a poco, il fascismo avrebbe fatto piazza pulita.
Vincenzo Torraca, il direttore di un tempo, non ha dubbi, forse la sua stessa vita lo ha indotto a un certo relativismo sulla reale portata della competenza tecnica (specialista di politica estera, dirigerà, nel ventennio, una lavanderia e successivamente si dedicherà alla direzione del teatro Eliseo): noi combattenti, ohimé, abbiamo preparato la via a quei briganti.
Luigi Russo, invece, difende le antiche posizioni: Prefascismo! Ma quale prefascismo! quello della repubblica di Platone, in cui si noterebbe, semmai, come vizio la carenza assoluta della feccia di Romolo.
Discepolo di Benedetto Croce, Russo inclina talvolta al delirio di chi pensa di appartenere ad un'aristocrazia dello spirito che attraversa immutata il corso della storia. Qui non si accorge che la repubblica di Platone non è propriamente un esempio di democrazia, mentre gratifica il popolo dell'apostrofe che già gli fu riservata da Cicerone, paglietta dei latifondisti dell'antica roma .
Quest'ultimo dettaglio ci riporta nuovamente all'attualità: dopo l'orgia di volgarità plebea di Berlusconi e lega, il termine popolare sembra essersi dissolto, sostituito, per tardiva ipercorrezione con populista, che meglio si presta a liquidare anche legittime aspirazioni dei ceti meno abbienti.
Da parte sua, Russo, la pretesa inaffidabilità del popolo (questa volta estendendo il termine a denominare la nazione) la mette in conto ai preti: colpevole, semmai, era tutto quel tristo popolo d'Italia, vecchio titano ignavo, fatturato dalla menzogna di almeno tre secoli e mezzo di controriforma cattolica.
Anche questa, a ben pensarci, è ancora teoria corrente e comodissima che sancisce, mentre al governo si avvicendano, da un secolo e mezzo, illuminati framassoni, un inemendabile peccato originale del popolo, rispetto al quale si va a definire un'aristocrazia borghese, laica, cosmopolita e illuminista che si sente titolata a far guai in un campo dove i borghesi non dovrebbero entrare.
Su entrambe le questioni, tanto della repubblica di Platone, quanto della feccia di Romolo, Russo è fortunatamente in contraddizione con sé stesso.
Nel Proemio che apre quello stesso primo numero di Belfagor, l'idea che gli intellettuali possano, di per sé, migliorare la politica, è scomparsa. ci si preoccupa, piuttosto, del contrario: ripensiamo a quei tre o quattro uomini di alta cultura e di non spregevole mente che si immisero nel movimento fascistico: la loro rovina mentale fu ruinosa nel giro di pochi anni, e con la rovina mentale anche quella morale e politica.
Anche nella ritrovata democrazia si prevede un rapido imbarbarimento per quei buoni ingegni che tralasciando per un anno o due le sudate carte si faranno travolgere da ambizioni di cariche rappresentative. Sinistro vaticinio che ci riporta alla mente gli esordi, ormai lontani, di un promettente filosofo lagunare.
Nella rubrica Noterelle e schermaglie del terzo numero del 1946, Russo scrive i Dialoghetti correnti sulla monarchia e la repubblica, nei quali, pur lamentando residuali chiazze di borbonismo, sanfedismo, feudalesimo e qualunquismo, tanto al sud che nelle grandi città del nord, aggiorna il suo giudizio sul popolo, rispetto al quale non si può rinnegare l'educazione politica, che, tra progressi e ritorni dolorosi, pur si è compiuta e ha maturato in Italia.
Il progresso è tale da rendere finalmente democratica l'ideale repubblica platonica, infatti, qui in Toscana, io ascolto i discorsi dei popolani, e non trovo nulla che mi faccia desiderare i discorsi dei miei colleghi universitari.
Ripensamento? Sicuramente no. I due punti di vista coesistono, in parte per l'ambiguità dello statuto semantico del termine popolo, dei suoi derivati e delle sue antitesi, in parte perché la formazione idealista di Russo porta necessariamente a una contraddizione tra il piano del discorso dove ci si confronta su idee assolute e quello in cui si discorre di individui concreti, una sorta di doppia verità a cui corrispondono anche differenti registri di linguaggio.
Occorrerebbe, naturalmente, approfondire, ma qui non si intendeva tentare un bilancio critico dell'opera o della personalità del Russo (per il quale non saremmo attrezzati), ma di sottoporre a critica, quei riflessi di attualità politica che abbiamo via via sottolineato.
In estrema sintesi emergono un paio di argomenti che sono tuttora sul tappeto:
- il governo dei tecnici come rimedio alla decadenza dell'istituto parlamentare, con in subordine la questione di una preparazione specialistica come opportuna preselezione dei candidati a cariche elettive o di governo;
- l'inaffidabilità del popolo, sempre suscettibile di subalternità a vecchi e nuovi miti, e la necessità di un'educazione delle masse per integrarle all'avanguardia laica e cosmopolita della borghesia;
Questi due argomenti devono essere chiariti perché godono di cittadinanza anche a sinistra (per quel poco che ormai tale termine intende).
Per quanto riguarda il governo dei tecnici abbiamo assistito recentemente al preoccupante cedimento di teste altrimenti pensanti (Asor Rosa, Revelli, che a onor del vero non sostengono una pregiudiziale bontà del governo tecnico, ma, hic et nunc, l'accettazione, come male minore, del governo Monti), la ragione di preoccupazione, però, riguarda la nozione diffusa, derivata dal senso comune, che lo specialista di una determinata scienza o tecnica sia preferibile a un non specialista nella gestione di decisioni politiche relative a tale disciplina.
Questo non è sempre vero, anzi non lo è quasi mai: un medico potrebbe non essere un buon ministro della sanità, proprio perché vede il problema sanitario dal punto di vista di una minoranza coinvolta nel problema, e lo stesso si può dire per un professore che guida la pubblica istruzione o di un costruttore che decide sui lavori pubblici. Di quanto sia affidabile un banchiere alla direzione del welfare, o un generale alla difesa, lascio decidere al lettore.
Il bisogno di terziarietà è oggi ancor più ineludibile, stante la privatizzazione della ricerca scientifica, che è stata conseguentemente indirizzata al perseguimento del profitto, in tal modo la scienza si è esplicitamente liberata della finzione che la pretendeva disinteressata.
Il dilemma va risolto affrontandone l'altro corno, senz'arte né parte, si era detto, mentre occorrerebbe dire: senz'arte magari, ma certamente di parte. Anche una cuoca può fare il primo ministro, ammoniva Lenin.
La rappresentanza corretta dei bisogni e delle aspirazioni del paese non nasce dalla sapienza libresca, ma dalla corretta rappresentanza parlamentare delle diverse classi sociali. In Italia abbiamo un eccesso di partiti di opinione, naturalmente interclassisti, mentre manca del tutto la rappresentatività sociale.
È roba vecchia, si dirà, ma il nuovo, così bisognoso di continui ritocchi di ingegneria istituzionale, è sotto gli occhi di tutti, e non funziona.
Corollario necessario al ristabilimento di un parlamento che sia la fotografia del paese, è il ripristino del sistema proporzionale.
Anche l'idea di istituire un'accertamento di competenze finalizzato alla scrematura dei candidati idonei (per intenderci, una scuola di pubblica amministrazione, sul modello francese) pecca sul versante della democrazia.
Ben poco si è fatto, dal dopoguerra a oggi, per garantire effettivamente l'accesso ai gradi più alti d'istruzione a chi proviene dalle classi svantaggiate.
È invece evidente che il sistema universitario, il giornalismo, il cinema e la televisione, per tacere delle professioni liberali, brulicano di figli d'arte: professori figli di professori, giornalisti figli di giornalisti, registi figli di registi.
L'istituzione di un cursus honorum per l'accesso alla politica si tradurrebbe in un ridicolo epilogo del referendum istituzionale del 1946: eliminato il re, si renderebbe ereditaria ogni altra carica.
L'altra questione, quella del popolo bue, perennemente succube di franceschiello, dei preti o della televisione, è di antica data.
Si cominciò non appena archiviata l'era napoleonica, con società segrete, dedite a sciagurate congiure, che al popolo si appellavano, ma che erano in realtà sodalizi di studenti, di borghesi e persino di qualche aristocratico. Diffidando di un popolo, che di loro diffidava, i liberali italiani riuscirono a compiere l'unificazione del paese con il concorso di un re, di una compagnia di navigazione e di qualche loggia massonica.
Era una brutta partenza, ma il paternalismo mazziniano tenne a battesimo anche gli esordi del movimento operaio. Sorsero effimeri e velleitari partiti, a direzione borghese, che si richiamavano al socialismo, ma per arrivare a fondare un vero e proprio partito socialista si dovette passare attraverso l'esperienza del Partito Operaio Italiano, da cui i borghesi erano esclusi.
La lezione non ebbe durevoli effetti e di lì a poco un nuovo rigurgito illuminista, il positivismo, riconsacrò l'egemonia, nel partito socialista, di avvocati, dottori e maestri di scuola.
La tara borghese diede alla luce due gemelli deformi, il massimalismo e il sindacalismo rivoluzionario: molto movimento, ma nessuna offensiva; tanti scioperi e nessuna rivoluzione.
Non si aveva nessuna fiducia nelle masse, e si arrivò così al 1920, che passò lasciando immutati i rapporti di classe. Altri si mossero.
Operai e braccianti si logorarono in massacranti lotte di difesa, quando non c'era più nulla da difendere, se non l'impotente parlamentarismo degli avvocati, dei dottori e dei maestri di scuola.
Ci si divise, infine, ma era ormai troppo tardi.
Furono comunque quelle stesse masse popolari, incolte e inaffidabili, a fornire, e dopo un ventennio di educazione fascista, il nerbo della riscossa.
Questa è una lezione della storia, a quanto pare molto diversa da quella dello storicismo, che torna ad essere di stringente attualità.
L'altra questione, quella del popolo bue, perennemente succube di franceschiello, dei preti o della televisione, è di antica data.
Si cominciò non appena archiviata l'era napoleonica, con società segrete, dedite a sciagurate congiure, che al popolo si appellavano, ma che erano in realtà sodalizi di studenti, di borghesi e persino di qualche aristocratico. Diffidando di un popolo, che di loro diffidava, i liberali italiani riuscirono a compiere l'unificazione del paese con il concorso di un re, di una compagnia di navigazione e di qualche loggia massonica.
Era una brutta partenza, ma il paternalismo mazziniano tenne a battesimo anche gli esordi del movimento operaio. Sorsero effimeri e velleitari partiti, a direzione borghese, che si richiamavano al socialismo, ma per arrivare a fondare un vero e proprio partito socialista si dovette passare attraverso l'esperienza del Partito Operaio Italiano, da cui i borghesi erano esclusi.
La lezione non ebbe durevoli effetti e di lì a poco un nuovo rigurgito illuminista, il positivismo, riconsacrò l'egemonia, nel partito socialista, di avvocati, dottori e maestri di scuola.
La tara borghese diede alla luce due gemelli deformi, il massimalismo e il sindacalismo rivoluzionario: molto movimento, ma nessuna offensiva; tanti scioperi e nessuna rivoluzione.
Non si aveva nessuna fiducia nelle masse, e si arrivò così al 1920, che passò lasciando immutati i rapporti di classe. Altri si mossero.
Operai e braccianti si logorarono in massacranti lotte di difesa, quando non c'era più nulla da difendere, se non l'impotente parlamentarismo degli avvocati, dei dottori e dei maestri di scuola.
Ci si divise, infine, ma era ormai troppo tardi.
Furono comunque quelle stesse masse popolari, incolte e inaffidabili, a fornire, e dopo un ventennio di educazione fascista, il nerbo della riscossa.
Questa è una lezione della storia, a quanto pare molto diversa da quella dello storicismo, che torna ad essere di stringente attualità.