In quanto uomo, m'impegno ad affrontare il rischio dell'annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo
la loro luce essenziale (Frantz Fanon)

lunedì 13 agosto 2012

Napolitano e la sua formazione politica e culturale

di Luigi Ficarra



Molti, specie a sinistra, si chiedono spesso, dubbiosi, come mai Napolitano, ex dirigente di primo piano del Pci, si faccia oggi sostenitore di un governo benvoluto dai centri di potere, interni e internazionali, del capitalismo finanziario ed industriale. E non pochi sospendono il giudizio, speranzosi in un suo "ravvedimento".
Non ricordano i più anziani ed i più giovani ignorano che Napolitano, quale primo esponente della corrente di destra del Pci, i cosiddetti "miglioristi", fu l'avversario principale della svolta radicale per l'alternativa di sinistra che Berlinguer, superata-abbandonata criticamente la linea del compromesso con la Democrazia Cristiana di Andreotti e Forlani e suoi alleati, propose e lanciò col famoso discorso di Salerno del 1980.
Egli si contrappose a Berlinguer, sostenendo che andava perseguita l'unità col Psi di Craxi, con colui, cioè, che si fece artefice della normalizzazione capitalistica a livello politico dopo la vittoria padronale alla Fiat del 1980. E per gestirla con forza riprese, applaudito da Fini, la proposta della Repubblica Presidenziale, che comportava la riduzione-limitazione dei poteri del Parlamento, della rappresentanza democratica e dei partiti. Proposta che per primo aveva lanciato Almirante, grande ammiratore della svolta autoritaria della Quinta Repubblica presidenziale di De Gaulle
Quando, poi, Berlinguer, nel luglio 1981, rilasciò a Scalfari la famosa intervista con la quale condannava la spartizione fra partiti di ogni carica direttiva nelle Ulss ed in tutti gli altri enti pubblici - (un "vero e proprio mercimonio", disse, che investiva in particolare il Psi dei Craxi oltre alla Dc e suoi alleati) -, e nella quale sostenne con grande energia che la questione morale era essenzialmente questione politica, concernendo la salvaguardia della democrazia costituzionale, Napolitano lo attaccò duramente sui giornali, tacciandolo di moralismo - argomento forte di Giuliano Ferrara - e dicendo che in tal modo venivano tagliati i ponti di una possibile alleanza anche col Psi.
Napolitano, per la sua formazione politica, ricevuta come vedremo, per sua stessa ammissione, da maestri di destra, si è mosso sempre in una logica di mera gestione del potere esistente, mai ponendosi il problema della sua trasformazione rivoluzionaria. Questo spiega la sua grande amicizia politica con Lama, specie dopo la svolta a destra compiuta da quest'ultimo col comizio dell'Eur. Quel Lama che egli sostenne quando nella Direzione del Pci votò contro la giusta proposta di Berlinguer per il referendum abrogativo del decreto Craxi, che costituiva un argine a difesa dei salari. E detta comunanza di idee politiche, morto Berlinguer nel 1984, gli manifestò ancora proponendolo, in alternativa a Natta, quale nuovo segretario del Pci.
Pochi conoscono il cimento di Napolitano col noto libro di Lenin "Contro l'estremismo". Curandone per gli editori Riuniti l'introduzione, egli svolse delle osservazioni critiche nei riguardi del grande rivoluzionario per la spiegazione da questi data del fenomeno dell'estremismo, causato - diceva Lenin - dalla linea moderata e rinunciataria di parti consistenti e maggioritarie del movimento operaio occidentale. Spiegazione che da parte di Lenin non voleva essere, e non era, una giustificazione ma una corretta individuazione della genesi del fenomeno, sì da poterlo combattere, risolvendolo in modo politico corretto e da sinistra. Napolitano, invece criticò la suddetta spiegazione, ritenendola una giustificazione da rigettare in ogni caso.
Questo è stato ed è Napolitano, al di fuori di ogni agiografia.
D'altronde, è stato egli stesso a spiegare a tutti la sua formazione culturale, essenzialmente di destra, sia a livello storico che filosofico.
Nella famosa intervista del 24 dicembre 2011 al Corriere della Sera, curata da Marzio Breda, e rilasciata per un bilancio delle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia - non a caso dirette sotto l'egemonia della storiografia di destra -, Napolitano, alla domanda del giornalista: «Su quali studi ha formato le proprie idee? Quali saggi e ricerche consiglierebbe alle generazioni di oggi?», rispose che era ripartito da libri che aveva letto e conservato, dai libri di Giustino Fortunato sul meridionalismo, alle diverse storie di Benedetto Croce, agli scritti di Silvio Spaventa ed alla "Vita di Cavour" di Rosario Romeo.
Circa i primi due, Fortunato e Croce, assunti come suoi maestri di pensiero, ricordo che Gramsci, che Napolitano avrebbe pur dovuto conoscere, in uno dei suoi saggi più importanti, Il Mezzogiorno e la rivoluzione socialista, scrive che «al di sopra del blocco agrario funziona nel Mezzogiorno un blocco intellettuale che praticamente ha servito finora ad impedire che le screpolature del blocco agrario [medesimo] divenissero troppo pericolose e determinassero una frana. Esponenti di questo blocco intellettuale sono Fortunato e Benedetto Croce, i quali, perciò, possono essere giudicati come i reazionari più operosi della penisola». Benedetto Croce, scrive sempre Gramsci con argomentazioni di elevato livello e difficilmente confutabili sul piano logico-filosofico, «ha compiuto una altissima funzione nazionale: ha distaccato gli intellettuali radicali del Mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli partecipare alla cultura nazionale ed europea, e attraverso questa cultura li ha fatti assorbire dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario».
Tenuto presente il consenso acritico di cui ancora oggi gode Giustino Fortunato, pure da parte di molti progressisti, ricordo che questo grande intellettuale, ammirato da Napolitano, nel suo libro “Badie feudi e baroni della Valle di Vitalba” (Editore Lacaita 1968, con introduzione di Tommaso Pedio), ha, come diremo meglio più avanti, anteposto i suoi personali interessi di grosso agrario ad una possibile soluzione, pur'anche riformista, dei residui feudali allora ancora esistenti nel Mezzogiorno. Egli difende contro tutti la proprietà di diverse migliaia di ettari di terreno nella valle dell'Ofanto che, assieme al fratello, aveva ereditato dai suoi avi, i quali, dopo l'eversione della feudalità, li avevano illecitamente ottenuti sotto i Borboni ad un prezzo stracciato, nel 1843 circa. Non c'è dubbio che Giustino Fortunato vada annoverato per le sue opere fra i maggiori storici italiani; ma «non basta - scrive Pedio - aver denunziato la debolezza e la corruzione della classe dirigente e richiamato l'attenzione del paese sulla inferiorità sociale ed economica del Mezzogiorno d'Italia e sulla necessità di affrontare e risolvere la "Questione meridionale" [...] per fare di uno scrittore (come lui) l'antesignano delle più avanzate correnti politiche». Egli, in realtà, pur avendo individuato le cause sostanziali della miseria in cui versava la popolazione del Mezzogiorno, non propone la soluzione che avrebbe dovuto, sol perché - come spiega lo storico Pedio - «non riesce a posporre ad interessi maggiori i propri, quelli della sua famiglia e quelli dei suoi elettori». «Per lui - continua Pedio, che concorda in ciò col giudizio dato da Gramsci - non esiste altro problema all'infuori della costituzione di una sana forza media che sia posta, sostanzialmente al servizio dei grossi proprietari terrieri». Ai quali soltanto - dice Fortunato - deve essere affidata, assieme alla ricca borghesia capitalistica, la direzione dello Stato. Con la mentalità del grosso agrario, Fortunato manifesta totale sfiducia nei riguardi dei contadini, che sostanzialmente disprezza. Neppure ipotizza, ovviamente, una riforma agraria a loro favore. Anzi, in “Badie feudi e baroni della valle di Vitalba”, espressamente la esclude, arrivando a sostenere la "necessità" del latifondo, che "giustifica" facendo appello al clima ed alle cattive condizioni idrogeologiche del territorio. Egli fu in realtà, assieme a Sonnino e Franchetti, tra gli artefici della fusione tra latifondo e borghesia agraria nel Mezzogiorno, e tra blocco agrario e borghesia industriale del Nord.
Napolitano, che è di buona cultura, sa con certezza tutto ciò ed anche, in particolare, che nel gennaio del 1927, quando i contadini poveri di Lavello si rivolsero al Prefetto di Potenza per ottenere i terreni incolti della tenuta di Gaudiano, circa 240 ettari, non, per giunta, in proprietà ma con l'impegno di corrispondere un canone, Don Giustino si oppose con tutte le sue residue forze, facendo appello al diritto assoluto e sacro della proprietà privata, la cui libertà doveva essere per lui assolutamente incondizionata.
Dell'altro maestro di pensiero di Napolitano, Silvio Spaventa, indubbiamente un grande intellettuale, non possiamo non ricordare che, quale esponente della destra liberale, sedette nel primo parlamento dopo l'unità d’Italia e, sostenendola nel dibattito, votò nell'agosto del 1863 una delle leggi più reazionarie e liberticide della nostra storia, la legge Pica. La quale, legittimò lo stato d'assedio deciso nell'estate 1862, e cioè il potere militare assoluto nelle province meridionali definite «infette», e quindi anche l'ordinanza militare della primavera del 1863 sul blocco della transumanza, diretta contro il mondo dei contadini e dei pastori, sospettati di essere dei potenziali "banditi". Una legge, la Pica, voluta per la repressione manu militari del cosiddetto brigantaggio, che altro essenzialmente non fu che una rivolta di massa dei contadini poveri contro l'oppressione dei vecchi e dei nuovi dominatori, una pagina dura della lotta di classe nel nostro paese.
Napolitano certamente saprà che mentre il suo maestro Silvio Spaventa approvava senza batter ciglio questa repressione, che autorizzava, senza neppure l'ombra di un processo, la fucilazione immediata di chi era anche solo sospettato di essere partigiano della rivolta, il Senatore G. Ferrari del partito democratico definiva giustamente l'introduzione e la gestione dello stato d'assedio una «guerra barbarica», dicendo, rivolto ai banchi del governo : «state sguazzando nel sangue».
Egli, essendo uomo di buone letture, sa pure che, come ben spiegato dal Geymonat, Silvio Spaventa perseguì il progetto ideologico di importare in Italia la filosofia idealistica hegeliana, contrapponendola a quella spiritualista e retriva del Gioberti, e ciò in funzione della unificazione culturale degli intellettuali del blocco moderato e dell'inglobamento in esso di parte di quelli democratici, portandoli a supportare, come lui, la soluzione monarchico moderata. Come, ad esempio, farà il Crispi.
Nella succitata famosa intervista al Corriere del dicembre dell'anno scorso, al giornalista che gli chiede di citare un libro sul Risorgimento che egli ritenga di particolare importanza, Napolitano indica l'opera di Rosario Romeo “Cavour ed il suo tempo”: è indubbiamente un lavoro storico di altissimo livello, ma che si colloca nettamente a destra nella storiografia del nostro paese. Rosario Romeo, discepolo di Gioacchino Volpe, e di scuola e formazione crociana, fu un liberale anche sul piano politico per l'adesione data al partito di Malagodi. Egli, specie con l'opera “Risorgimento e capitalismo”, si contrappose ad Antonio Gramsci nell'analisi ed interpretazione sia del processo di unificazione che della fase post unitaria. Gramsci, come noto, sottolineò la scelta negativa della classe dirigente di non creare, durante il processo di unificazione nazionale, un'alleanza con le classi rurali. Risultato, questo, dovuto anche al fatto - disse sempre Gramsci - che il Partito d'Azione, non rappresentando un gruppo sociale omogeneo, e non avendo quindi una sua autonomia di classe, fu succube di quello moderato, venendone diretto e sostanzialmente utilizzato. Ed osservò - in ciò concorde con Gobetti - che motore dell'unità del paese furono il Piemonte, la dinastia Savoia e la piccola minoranza di intellettuali, grandi agricoltori ed imprenditori del partito moderato (Cavour); non, quindi, un processo rivoluzionario dal basso, ma una «conquista regia».
Rosario Romeo, al contrario, sostenne che un'eventuale rivoluzione agraria avrebbe ostacolato il processo di accumulazione e, quindi, lo sviluppo del capitalismo. Scrive, però, dando con ciò indiretta ragione a Gramsci, che «la conquista del potere da parte della borghesia nel Risorgimento coincide con una fase di accentuato antagonismo fra città e campagna, fra borghesia e contadini. Fase che - riconosce - era stata oltrepassata dalla Francia nell'età della Rivoluzione (1789-1795) e proprio per questo la borghesia aveva [lì] potuto impegnarsi a fianco dei contadini contro la proprietà feudale». Senza, osserviamo noi, alcun ostacolo per il processo di accumulazione. Ciò spiega come mai il Romeo, e con lui tutti gli storici di destra, non siano riusciti a vedere nella scelta reazionaria della borghesia, diretta allora dal Crispi, di reprimere invece di "utilizzare" il movimento dei Fasci dei lavoratori siciliani - (che fu il più grande movimento di massa a direzione socialista dell'800 dopo la gloriosa Comune di Parigi) -, una grande occasione storica perduta per portare a positivo compimento ed in modo avanzato il processo di reale unificazione del paese.
Come scrive Gramsci, fu questo limite intrinseco al Risorgimento italiano (mancata alleanza della borghesia capitalistica con i contadini), la causa del suo sostanziale fallimento, origine della successiva involuzione autoritaria del paese. Prima col proto-fascista Crispi (stato d'assedio in Sicilia il 3 gennaio 1894 con pieni poteri al generale Morra di Laviano e repressione manu miltari del movimento di contadini, operai ed artigiani organizzati nei Fasci dei lavoratori siciliani; repressione con l'esercito delle lotte dei lavoratori del marmo in Lunigiana; scioglimento, nel giugno 1894, della Sezione italiana del Partito dei lavoratori; chiusura del Parlamento nel luglio 1894; messa fuori legge del Psi nell'ottobre dello stesso anno). Poi con la svolta reazionaria di fine '800: strage di operai in sciopero per il pane, operata nel 1898 da Bava Beccaris a Milano, e successiva incoronazione di quest'ultimo, con una particolare medaglia al valore, da parte del vile re Umberto I di Savoia. Ed infine con la dittatura fascista, con cui la borghesia concluse la prima fase del processo unitario. Dittatura che Croce, il quale votò in Parlamento a favore di Mussolini sin dopo il delitto Matteotti, interpretò poi, prendendo le distanze dopo il gennaio 1925, come una "parentesi" della storia della libertà, e non come la conclusione necessaria di un processo reazionario. Così come ebbe a definirla il liberale Gobetti ne “La rivoluzione liberale” (autore che Napolitano non indica fra i suoi maestri…).
Rosario Romeo condivide invece la tesi di Croce, dicendo nell'intervista sul suo libro “Cavour ed il suo tempo”, rilasciata allo storico Guido Pescosolido e da questi pubblicata per le edizioni "Il Salotto di Clio", nel 2010, che «il fascismo [...] germinò da tronchi politico-culturali chiaramente distinti da quello liberale». Nella stessa intervista a Pescosolido si spinge a sostenere da autentico liberale di destra, che «la repubblica per Cavour significava quello che in sostanza - egli commenta - aveva significato per tutti coloro [aristocratici voleva e doveva dire] che avevano vissuto l'esperienza di fine settecento, la ghigliottina e l'ascesa delle classi inferiori» [dice con una punta di razzismo]. La Repubblica - continua Rosario Romeo - «avrebbe comportato la ripresa della marcia della rivoluzione, intesa come sovvertimento politico e sociale»; con riferimento indiretto da parte sua alla gloriosa Repubblica romana del 1849, ovviamente esecrata. «Il reale progresso della società - dice ancora il Romeo attraverso il suo Cavour - doveva essere garantito dalla conservazione del potere politico da parte dei ceti fondiari».
Questo è il Rosario Romeo esaltato da Napolitano nella citata intervista del dicembre 2011, ed è naturale, perché ebbero entrambi comuni maestri in Croce, Fortunato e Spaventa, non certo in Gramsci, teorico della rivoluzione comunista in occidente.
Anche il liberista Monti, scelto da Napolitano alla guida dell'attuale governo, ha, pour cause, gli stessi succitati maestri di pensiero.
Napolitano si fa primo sostenitore, nel 2011, della guerra neocoloniale in Libia, in coerenza con l'acritico giudizio positivo - eccettuata la "parentesi", tale anche per lui, del fascismo - che ha dato su tutta la pregressa storia d'Italia, comprese, quindi, anche le guerre coloniali volute da Crispi, sino alla sconfitta di Adua del 1896 ad opera dei valorosi resistenti eritrei, e poi da Giolitti nel 1911.
Napolitano ama ripetere che egli si pone sempre come garante della Costituzione del 1948. Ma così non è stato, in coerenza con la sua formazione politico-culturale, per la difesa dell'art. 11 cost., sostenendo nel 2011, come appena detto, la guerra in Libia e continuando a sostenere, anche oggi, quella di aggressione contro l'Afghanistan, nulla opponendo neppure alla recente decisione del ministro Di Paola e di Monti di dare via libera ai reparti dell'aviazione, lì presenti, di bombardare tutti i siti ritenuti strategici, anche, quindi, i villaggi in cui si sospetti la presenza di partigiani della resistenza afgana contro gli occupanti Nato.
Napolitano, dimostrando di essere in realtà un sostenitore dei poteri forti, nulla ha obiettato contro lo stravolgimento del nostro ordinamento mediante l'introduzione in Costituzione dell'obbligo del pareggio di bilancio (art. 81 cost.), del quale ha anzi sollecitato l'approvazione. Pur sapendo da uomo, ripeto, di buona cultura, di avallare con ciò la sostanziale abrogazione dell'art.41, terzo comma, cost., che parla della programmazione economica, e dell'art. 3, secondo comma, della medesima, che pone alla Repubblica l'obbligo di rimuovere gli ostacoli di ordine economico-sociale, perché possa realmente esservi una eguale ed effettiva partecipazione di tutti alle gestione della comunità.
Egli ha giudicato un fatto positivo la controriforma del diritto del lavoro compiuta dal governo Monti, che ha al suo centro la sostanziale abrogazione dell'art. 18 Statuto dei lavoratori; abrogazione che comporta, come egli sa e comunque non può non sapere, l'abrogazione dell'art. 41, secondo comma, cost., il quale recita che l'esercizio del diritto di proprietà privata non può svolgersi in contrasto ed offesa ai valori di libertà, dignità e sicurezza dei lavoratori. Lavoratori, che la suddetta controriforma ha ridotto a mera merce sempre monetizzabile, cancellando così le avanzate conquiste degli anni '60 e '70.
D'altronde, egli stesso non mosse alcuna osservazione d'incostituzionalità, che pur era ed è palese, nei riguardi del decreto n. 138 varato dal governo Berlusconi nell'agosto 2011 (poi legge 148/11), il cui art. 8 consente, in materia di lavoro, di derogare ai CCNL ed anche alle leggi, ed il cui art. 4, di recente abrogato dalla corte Costituzionale, riproponeva parola per parola le norme della legge Ronchi-Fitto sulle privatizzazioni dei servizi, che erano state appena abrogate nel referendum del giugno 2011 a stragrande maggioranza di popolo.
Questo è Giorgio Napolitano, attuale Presidente della Repubblica, che ha concorso con le sue scelte, come ebbe a dire Russo Spena, a realizzare il sogno dell'assolutismo liberista: una democrazia senza partiti e senza sindacati conflittuali, ma solo proni e collaborativi nei riguardi di tecnici esperti ed "onesti", espressione del capitale finanziario ed industriale. Come, per fare un solo esempio, Passera, che, assieme alla sua Banca, gestì per conto di Berlusconi nel 2008, nella veste di advisor (consulente), l'affare Alitalia, ceduta a prezzi stracciati alla Cai, della cui cordata fece pure parte.

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