In quanto uomo, m'impegno ad affrontare il rischio dell'annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo
la loro luce essenziale (Frantz Fanon)
domenica 29 gennaio 2012
personaggi. antonio canepa
Preferì l'esercito indipendentista alle aule accademiche. Ucciso dai carabinieri nel 1945
Canepa, l'intellettuale separatista e guerrigliero
di Francesco Renda
È tema di attualità il movimento separatista degli anni 1943-1946? Mi pongo la domanda, perché è venuta a trovarmi una giornalista chiedendomi che le parlassi di Antonio Canepa. La sua attenzione su Canepa era sorta per avere assistito, nella sede del suo giornale, a una discussione sul capo guerrigliero siciliano. Voleva saperne di più ed era scesa in Sicilia per condurre un´apposita inchiesta. Ma chi era Antonio Canepa?
Parlare di Canepa importa parlare di separatismo. Non che siano da modificare i giudizi storici e politici sul movimento per l´indipendenza della Sicilia. Il passato non è suscettibile di modificazioni. Il Mis fu un movimento politico che ebbe il torto storico o il limite etico-politico non tanto di rivendicare l´indipendenza siciliana quanto di mischiare politica, mafia e banditismo con l´errato presupposto che la politica fatta di idee audaci e di corretti propositi non fosse stata sufficiente.
Guardare però a quel movimento alla distanza di oltre mezzo secolo, non ci si può limitare ad esprimere i vecchi dissensi. Siamo stati antiseparatisti allora, non possiamo essere anti ancora oggi. Ma per compiere l´analisi storica necessaria occorre anche il concorso di quanti, eredi personali o familiari del separatismo, rendendo disponibili i documenti. Molti degli stessi sono stati distrutti per non incorrere nei rigori della legge. Nondimeno rimane sempre dell´altro, e oggi metterli a disposizione sarebbe utile anche nell´interesse del movimento.
Ma poiché parliamo di Antonio Canepa, cominciamo da un riconoscimento. Il movimento separatista di Finocchiaro Aprile fu il primo, il più numeroso e il più operoso partito siciliano durante l´occupazione militare alleata del 1943. Rimase il primo e il più forte dell´Isola nel 1944 e 1945. Quindi il problema è da esaminare con viva attenzione, anche perché - diciamolo pure - senza il movimento separatista non ci sarebbe stata l´autonomia siciliana, voluta e imposta al governo italiano residente ancora a Brindisi dall´amministrazione militare alleata nel dicembre 1943 come risposta all´animosa agitazione indipendentista.
In prospettiva storica ne possiamo concludere che senza il separatismo non ci sarebbe stata l´Autonomia siciliana, senza l´Autonomia siciliana non si sarebbe approvata la Costituzione del 1948 con aggiunte le autonomie regionali speciali e ordinarie, e cosa dopo cosa, non saremmo oggi alla vigilia del federalismo fiscale e forse non ci troveremmo nell´anticamera del federalismo. Bene! All´origine di questo colossale processo fu il movimento separatista siciliano.
Antonio Canepa ne fu insieme con Finocchiaro Aprile e altri il fondatore e il dirigente politico, ma ne fu soprattutto il capo ideologico, oltre che il comandante dell´Evis. Se Canepa non avesse scelto di fare il capo guerrigliero, e fosse rimasto come intellettuale egemone nel movimento il suo raffronto sarebbe con Finocchiaro Aprile. Come capo guerrigliero il raffronto è con Salvatore Giuliano, e il bandito di Montelepre fu guerrigliero più efficace dell´autore de "La Sicilia ai Siciliani", considerata la "Bibbia" del movimento.
Ma lasciamo stare i raffronti e veniamo al personaggio. Canepa insegnava a Catania ed è morto in provincia di Catania ma non fu catanese. Nacque a Palermo nel 1908 e visse a Palermo almeno fino al 1930, quando conseguì la laurea con 110 e lode. Poi fu errante per l´Italia e alla fine approdò a Catania. Fu anche di famiglia palermitana che apparteneva alla classe dominante siciliana.
Il padre, Pietro, professore universitario, aveva sposato la nobil donna Teresa, sorella dell´onorevole Antonino Pecoraro, deputato del partito popolare. Se Antonio non fosse morto all´età di 37 anni, aveva tutte le connotazioni essenziali per fare carriera politica. La famiglia Pecoraro era una potente famiglia politica e con quella famiglia era o si sarebbe imparentato anche l´onorevole Franco Restivo, presidente della Regione e ministro dell'Interno della Repubblica italiana. Lungo una linea immaginaria possiamo collocare Antonio Canepa nipote di Antonino Pecoraro e parente di Franco Restivo.
Canepa aveva pure la dote intellettuali come il padre e come Restivo di far parte dell´intellighenzia siciliana. Ne faceva parte come studioso e come docente universitario, e nuovamente è da ripetere che, se avesse vissuto una vita normale, come aveva scritto sulla "Storia e dottrina del sistema fascista" e "La Sicilia ai Siciliani", certamente si sarebbe impegnato in altri studi di dottrina politica.
La biografia storica di Antonio Canepa tuttavia non può essere fondata sui "se". Anche di lui è da dire "suae quisque fortunae faber". Scelse di fare il capo guerrigliero senza averne le doti e la preparazione politica e militare. Scelse di essere il fondatore dell´Esercito Volontari per l´Indipendenza della Sicilia, e fu quello l´errore fatale della sua vita.
Fare il partigiano nel 1944 e nel 1945 non era scelta desueta. C´erano partigiani in tutta Europa e Canepa era stato con i partigiani di Firenze. In Sicilia la smania di fare il partigiano circolava anche fra i comunisti, e chi faceva quella scelta si dava alla macchia e diveniva un bandito politico. Canepa come partigiano indipendentista avrebbe dovuto vivere e comportarsi da partigiano, capo di guerriglieri partigiani che non dovessero impegnarsi fronte a fronte con l´esercito italiano. E invece fu al comando di giovani volontari, generosi fino al limite della morte, ma inesperti alla guerriglia, oltre ogni possibile immaginazione.
Canepa pagò con la vita quel suo errore. Egli non cadde in una imboscata dei carabinieri al bivio di Randazzo. Un capo partigiano non avrebbe fatto la leggerezza di viaggiare in macchina lungo una strada carrozzabile. Invero, allora lo Stato italiano non aveva il pieno controllo del territorio. Comunque era sempre possibile imbattersi - come di fatto avvenne - in un blocco di vigilanza e di controllo dei carabinieri. Su quello scontro ci sono tante versioni e tanti si dice. Ma forse la versione vera non è quella dell´imboscata, ma dell´incidente. Canepa fu vittima della sua scarsa inclinazione alla prudente vigilanza.
(La Repubblica ed. di Palermo 05 agosto 2008)
Canepa, l'intellettuale separatista e guerrigliero
di Francesco Renda
È tema di attualità il movimento separatista degli anni 1943-1946? Mi pongo la domanda, perché è venuta a trovarmi una giornalista chiedendomi che le parlassi di Antonio Canepa. La sua attenzione su Canepa era sorta per avere assistito, nella sede del suo giornale, a una discussione sul capo guerrigliero siciliano. Voleva saperne di più ed era scesa in Sicilia per condurre un´apposita inchiesta. Ma chi era Antonio Canepa?
Parlare di Canepa importa parlare di separatismo. Non che siano da modificare i giudizi storici e politici sul movimento per l´indipendenza della Sicilia. Il passato non è suscettibile di modificazioni. Il Mis fu un movimento politico che ebbe il torto storico o il limite etico-politico non tanto di rivendicare l´indipendenza siciliana quanto di mischiare politica, mafia e banditismo con l´errato presupposto che la politica fatta di idee audaci e di corretti propositi non fosse stata sufficiente.
Guardare però a quel movimento alla distanza di oltre mezzo secolo, non ci si può limitare ad esprimere i vecchi dissensi. Siamo stati antiseparatisti allora, non possiamo essere anti ancora oggi. Ma per compiere l´analisi storica necessaria occorre anche il concorso di quanti, eredi personali o familiari del separatismo, rendendo disponibili i documenti. Molti degli stessi sono stati distrutti per non incorrere nei rigori della legge. Nondimeno rimane sempre dell´altro, e oggi metterli a disposizione sarebbe utile anche nell´interesse del movimento.
Ma poiché parliamo di Antonio Canepa, cominciamo da un riconoscimento. Il movimento separatista di Finocchiaro Aprile fu il primo, il più numeroso e il più operoso partito siciliano durante l´occupazione militare alleata del 1943. Rimase il primo e il più forte dell´Isola nel 1944 e 1945. Quindi il problema è da esaminare con viva attenzione, anche perché - diciamolo pure - senza il movimento separatista non ci sarebbe stata l´autonomia siciliana, voluta e imposta al governo italiano residente ancora a Brindisi dall´amministrazione militare alleata nel dicembre 1943 come risposta all´animosa agitazione indipendentista.
In prospettiva storica ne possiamo concludere che senza il separatismo non ci sarebbe stata l´Autonomia siciliana, senza l´Autonomia siciliana non si sarebbe approvata la Costituzione del 1948 con aggiunte le autonomie regionali speciali e ordinarie, e cosa dopo cosa, non saremmo oggi alla vigilia del federalismo fiscale e forse non ci troveremmo nell´anticamera del federalismo. Bene! All´origine di questo colossale processo fu il movimento separatista siciliano.
Antonio Canepa ne fu insieme con Finocchiaro Aprile e altri il fondatore e il dirigente politico, ma ne fu soprattutto il capo ideologico, oltre che il comandante dell´Evis. Se Canepa non avesse scelto di fare il capo guerrigliero, e fosse rimasto come intellettuale egemone nel movimento il suo raffronto sarebbe con Finocchiaro Aprile. Come capo guerrigliero il raffronto è con Salvatore Giuliano, e il bandito di Montelepre fu guerrigliero più efficace dell´autore de "La Sicilia ai Siciliani", considerata la "Bibbia" del movimento.
Ma lasciamo stare i raffronti e veniamo al personaggio. Canepa insegnava a Catania ed è morto in provincia di Catania ma non fu catanese. Nacque a Palermo nel 1908 e visse a Palermo almeno fino al 1930, quando conseguì la laurea con 110 e lode. Poi fu errante per l´Italia e alla fine approdò a Catania. Fu anche di famiglia palermitana che apparteneva alla classe dominante siciliana.
Il padre, Pietro, professore universitario, aveva sposato la nobil donna Teresa, sorella dell´onorevole Antonino Pecoraro, deputato del partito popolare. Se Antonio non fosse morto all´età di 37 anni, aveva tutte le connotazioni essenziali per fare carriera politica. La famiglia Pecoraro era una potente famiglia politica e con quella famiglia era o si sarebbe imparentato anche l´onorevole Franco Restivo, presidente della Regione e ministro dell'Interno della Repubblica italiana. Lungo una linea immaginaria possiamo collocare Antonio Canepa nipote di Antonino Pecoraro e parente di Franco Restivo.
Canepa aveva pure la dote intellettuali come il padre e come Restivo di far parte dell´intellighenzia siciliana. Ne faceva parte come studioso e come docente universitario, e nuovamente è da ripetere che, se avesse vissuto una vita normale, come aveva scritto sulla "Storia e dottrina del sistema fascista" e "La Sicilia ai Siciliani", certamente si sarebbe impegnato in altri studi di dottrina politica.
La biografia storica di Antonio Canepa tuttavia non può essere fondata sui "se". Anche di lui è da dire "suae quisque fortunae faber". Scelse di fare il capo guerrigliero senza averne le doti e la preparazione politica e militare. Scelse di essere il fondatore dell´Esercito Volontari per l´Indipendenza della Sicilia, e fu quello l´errore fatale della sua vita.
Fare il partigiano nel 1944 e nel 1945 non era scelta desueta. C´erano partigiani in tutta Europa e Canepa era stato con i partigiani di Firenze. In Sicilia la smania di fare il partigiano circolava anche fra i comunisti, e chi faceva quella scelta si dava alla macchia e diveniva un bandito politico. Canepa come partigiano indipendentista avrebbe dovuto vivere e comportarsi da partigiano, capo di guerriglieri partigiani che non dovessero impegnarsi fronte a fronte con l´esercito italiano. E invece fu al comando di giovani volontari, generosi fino al limite della morte, ma inesperti alla guerriglia, oltre ogni possibile immaginazione.
Canepa pagò con la vita quel suo errore. Egli non cadde in una imboscata dei carabinieri al bivio di Randazzo. Un capo partigiano non avrebbe fatto la leggerezza di viaggiare in macchina lungo una strada carrozzabile. Invero, allora lo Stato italiano non aveva il pieno controllo del territorio. Comunque era sempre possibile imbattersi - come di fatto avvenne - in un blocco di vigilanza e di controllo dei carabinieri. Su quello scontro ci sono tante versioni e tanti si dice. Ma forse la versione vera non è quella dell´imboscata, ma dell´incidente. Canepa fu vittima della sua scarsa inclinazione alla prudente vigilanza.
(La Repubblica ed. di Palermo 05 agosto 2008)
martedì 17 gennaio 2012
avevamo più autostrade che treni, adesso vogliamo più taxi che autobus
Queste sono le cifre:
Dublino, 11.299 taxi per un totale di 1.186.159, quindi 9,5 mezzi ogni mille abitanti;
Milano, 1.336.879 abitanti e 4.900 taxi ha 3,7 veicoli ogni mille abitanti;
Barcellona, 10.482 taxi per un totale di 3.047.643 abitanti, quindi 3,4 taxi ogni mille;
Madrid con 4.961.732 abitanti e 15.646 taxi conta 3,1 vetture ogni mille abitanti;
Londra che con i suoi 7.512.400 abitanti e 21.681 di ‘cab’ ha 2,9 taxi ogni mille persone;
Roma, 2.774.625 abitanti e 7.800 taxi conta 2,8 vetture ogni mille persone;
Parigi che con i suoi 6.164.238 mln di abitanti e 15.500 vetture conta 2,5 taxi ogni mille persone;
New York: 8.175.133 abitanti , i taxi sono quasi 14.000 , 1,8 per mille;
Berlino con 3.406.780 abitanti e 6.587 ‘auto gialle’ conta 1,9 tassisti ogni mille abitanti;
Bruxelles: 1.067.162 abitanti e 1248 vetture, cioè 1,2 taxi ogni mille persone.
Come si vede la densità dei taxi, nelle grandi città italiane, è già tra le più alte del mondo.
Milano è battuto solo da Dublino (e sappiamo che aria tira in Irlanda) e Roma batte New York.
Eppure il governo dei professori ha il chiodo fisso dei taxi. Ne vuole di più.
D'altronde i professori sanno le cose e noi no. Noi ci figuravamo che bisognasse fare la tassa sui grandi patrimoni: sciocchezze, ci hanno detto con pazienza, rende poco. Noi ci immaginavamo un inasprimento delle sanzioni agli esportatori di capitali fraudolenti, non è leale, ci hanno ribattuto. Noi vagheggiavamo una riduzione dei compensi dei parlamentari, e ci hanno fatto osservare che deve provvedervi il parlamento. Volevamo gli accordi fiscali con la Svizzera, e ci hanno spiegato che era una procedura grossolana.
Insomma, non ne abbiamo imbroccata una. Non essendo professori ci eravamo incaponiti di cercare i quattrini nelle tasche dei ricchi, mentre bisognava andarle a prendere in quelle dei pensionati, dei precari e dei cassaintegrati.
Adesso ridiamo, della nostra ignoranza, che ci faceva almanaccare proposte ridicole e un po' classiste, quando l'equa soluzione del problema era lì sotto gli occhi di tutti: libertà di licenziamento e moltiplicazione dei taxi!
Una volta che ci hanno suggerito la risposta, anche a noi, che professori non siamo, appare chiaro come i due provvedimenti siano funzionalmente complementari.
Come a New York, l'operaio ultracinquantenne, licenziato senza giusta causa, avrà un piccolo risarcimento che, unito alla liquidazione, lo farà entrare nel mondo degli affari.
Come? Ma comprando una licenza di taxi, diamine!
Ma non si ferma lì, proprio come a New York, l'ingegnosa ricetta del professor Monti andrà a risolvere un terzo problema, quello dell'immigrazione.
Infatti, come nella grande mela, questi tassisti improvvisati, che partono già un po' indebitati e si fanno una concorrenza spietata, dopo un po' falliscono.
Le loro licenze vengono rilevate – al prezzo consueto in questi casi disgraziati, da un risparmiatore, che le noleggerà, a strozzo, a un malcapitato filippino o cingalese.
In America, dove in fatto di libertà sono avanti, funziona già così. Il cingalese ha la libertà di guidare 12 o 15 ore al giorno e di pagare 150 dollari quotidiani a chi gli noleggia la licenza.
I giorni in cui lavora in perdita non si contano, ma gente disposta a vendere le rose nelle pizzerie, deve avere certamente degli ottimi trucchi per far quadrare il bilancio.
Il professor Monti assesterà così un ulteriore colpo alla rendita!
Dublino, 11.299 taxi per un totale di 1.186.159, quindi 9,5 mezzi ogni mille abitanti;
Milano, 1.336.879 abitanti e 4.900 taxi ha 3,7 veicoli ogni mille abitanti;
Barcellona, 10.482 taxi per un totale di 3.047.643 abitanti, quindi 3,4 taxi ogni mille;
Madrid con 4.961.732 abitanti e 15.646 taxi conta 3,1 vetture ogni mille abitanti;
Londra che con i suoi 7.512.400 abitanti e 21.681 di ‘cab’ ha 2,9 taxi ogni mille persone;
Roma, 2.774.625 abitanti e 7.800 taxi conta 2,8 vetture ogni mille persone;
Parigi che con i suoi 6.164.238 mln di abitanti e 15.500 vetture conta 2,5 taxi ogni mille persone;
New York: 8.175.133 abitanti , i taxi sono quasi 14.000 , 1,8 per mille;
Berlino con 3.406.780 abitanti e 6.587 ‘auto gialle’ conta 1,9 tassisti ogni mille abitanti;
Bruxelles: 1.067.162 abitanti e 1248 vetture, cioè 1,2 taxi ogni mille persone.
Come si vede la densità dei taxi, nelle grandi città italiane, è già tra le più alte del mondo.
Milano è battuto solo da Dublino (e sappiamo che aria tira in Irlanda) e Roma batte New York.
Eppure il governo dei professori ha il chiodo fisso dei taxi. Ne vuole di più.
D'altronde i professori sanno le cose e noi no. Noi ci figuravamo che bisognasse fare la tassa sui grandi patrimoni: sciocchezze, ci hanno detto con pazienza, rende poco. Noi ci immaginavamo un inasprimento delle sanzioni agli esportatori di capitali fraudolenti, non è leale, ci hanno ribattuto. Noi vagheggiavamo una riduzione dei compensi dei parlamentari, e ci hanno fatto osservare che deve provvedervi il parlamento. Volevamo gli accordi fiscali con la Svizzera, e ci hanno spiegato che era una procedura grossolana.
Insomma, non ne abbiamo imbroccata una. Non essendo professori ci eravamo incaponiti di cercare i quattrini nelle tasche dei ricchi, mentre bisognava andarle a prendere in quelle dei pensionati, dei precari e dei cassaintegrati.
Adesso ridiamo, della nostra ignoranza, che ci faceva almanaccare proposte ridicole e un po' classiste, quando l'equa soluzione del problema era lì sotto gli occhi di tutti: libertà di licenziamento e moltiplicazione dei taxi!
Una volta che ci hanno suggerito la risposta, anche a noi, che professori non siamo, appare chiaro come i due provvedimenti siano funzionalmente complementari.
Come a New York, l'operaio ultracinquantenne, licenziato senza giusta causa, avrà un piccolo risarcimento che, unito alla liquidazione, lo farà entrare nel mondo degli affari.
Come? Ma comprando una licenza di taxi, diamine!
Ma non si ferma lì, proprio come a New York, l'ingegnosa ricetta del professor Monti andrà a risolvere un terzo problema, quello dell'immigrazione.
Infatti, come nella grande mela, questi tassisti improvvisati, che partono già un po' indebitati e si fanno una concorrenza spietata, dopo un po' falliscono.
Le loro licenze vengono rilevate – al prezzo consueto in questi casi disgraziati, da un risparmiatore, che le noleggerà, a strozzo, a un malcapitato filippino o cingalese.
In America, dove in fatto di libertà sono avanti, funziona già così. Il cingalese ha la libertà di guidare 12 o 15 ore al giorno e di pagare 150 dollari quotidiani a chi gli noleggia la licenza.
I giorni in cui lavora in perdita non si contano, ma gente disposta a vendere le rose nelle pizzerie, deve avere certamente degli ottimi trucchi per far quadrare il bilancio.
Il professor Monti assesterà così un ulteriore colpo alla rendita!
domenica 15 gennaio 2012
sabato 14 gennaio 2012
il giudice, il fascista e la morte
Gianluca Iannone, esponente di Casa Pound, si è rallegrato, sul suo profilo Facebook, per l'improvvisa e prematura morte del giudice Pietro Saviotti.
Le sue dichiarazioni hanno provocato reazioni indignate e pare che la procura della repubblica abbia aperto un fascicolo ipotizzando il reato di istigazione a delinquere.
Non conoscevo Saviotti, che immagino giudice integerrimo e degno di stima.
Non conosco neppure Iannone, ma so che è un fascista, e raramente ho incontrato un fascista degno di stima.
Ciò premesso, siccome le libertà di Iannone sono anche le mie, mi vedo costretto a difendere il suo diritto di esprimere un pensiero divergente su una materia monopolizzata da scaramantico conformismo.
Bisogna cominciare col dire che la reazione dei colleghi del giudice scomparso, lesti a rafforzare l'indignazione con la carta bollata, non fa una buona impressione.
Conferma infatti l'idea che la magistratura sia una casta intoccabile, permanentemente dedita, con occhiuta vigilanza e tempestiva repressione, alla propria autotutela.
Alcuni mesi fa, nella mia città, un giovane abitante di quelli che vengono definiti quartieri a rischio, moriva al pronto soccorso, in seguito alle ferite riportate in un incidente stradale. All'ingiustizia di quella fine cruenta e precoce, gli amici del ragazzo reagivano distruggendo i locali dell'astanteria. Cercavano di punire l' impersonale autore di quell'evento definitivo e irrazionale.
Naturamente tra i magistrati e i ragazzi di borgata c'è una differenza abissale di cultura ed educazione, ma è evidente che c'è una certa analogia nei meccanismi che hanno determinato l'attuale reazione delle toghe, con quelli della risposta violenta innescata, a suo tempo, dalla logica del branco.
Per quelli, come me, che hanno vissuto gli anni '70, il ricordo va alle condanne pesanti, fino all'ergastolo, comminate a chi leggeva volantini inneggianti a reati commessi da altri durante la propria detenzione e dei quali, quindi, non si poteva certamente essere ritenuti responsabili.
Il meccanismo giuridico che permise tale inusuale severità, fu quello dell'apologia, un concetto discutibile che difficilmente troverebbe posto in un codice penale non permeato del pensiero fascista di Alfredo Rocco.
In ogni caso, però, il concetto non è qui applicabile, perchè l'infarto che ha ucciso il giudice Saviotti non è un reato, e sfugge anche, stante tale eziologia, come si possa ipotizzare il reato di istigazione a delinquere, di cui parlano le cronache.
Si può anche andar oltre e teorizzare, come ipotesi di scuola, che in ogni caso, l'evento determinante e quello determinato non coincidono, e che si potrebbero dunque esecrare le barbare modalità dell'esecuzione di Gheddafi, rallegrandosi, al contempo, e legittimamente, della sua dipartita. L'omicidio è apologizzabile o condannabile, la morte no.
Resta il limite del buon gusto, e non è poca cosa, la buona creanza sembra essere oggi il criterio dirimente per distinguere un governo buono da uno cattivo.
Ma le buone maniere, come ci insegna Levy-Strauss, non sono convenzioni arbitrarie, sono rituali secolarizzati.
De mortuis nihil, nisi bonum. L'adagio è antico (Chilone di Sparta, VI secolo aC) e si radica in uno strato molto profondo delle origini del pensiero, in rapporto al quale l'atteggiamento dei magistrati romani, o della teppaglia suburbana, ha irrefutabili credenziali di modernità.
L'idea della morte come atto violento che anticipa sempre l'auspicabile fine naturale, e per il quale deve essere trovato un colpevole, è pur essa di antica origine, ma ha subito un restyling in tempi relativamente recenti, quando la morte, a dispetto degli auspici di Bacone e Condorcet, ha ribadito il suo stato di limite invalicabile dall'universale razionalizzazione pretesa dalla borghesia.
Certo, dalle nostre parti non addebitiamo più la morte, come ancora altrove si fa, al malocchio e alla stregoneria, ma il concetto della morte come violenza è radicato nel nostro inconscio e si rivela cifrato in molte formule di necrologio.
Viceversa la buona regola di non parlare male dei morti si radica in un sistema di credenze con il quale abbiamo perso ogni contatto, e cioè con la primitiva concezione di una capacità d'azione da parte del morto. Di queste inopportune e spaventose manifestazioni di soggettività, la più terribile consisteva nell'esercizio di un'estrema vendetta che si attuava nel portar via con sé eventuali nemici. Di tutti i riti e la prescrizioni da osservare per scongiurare tale possibilità, almeno in occidente abbiamo perso memoria, ci resta, come tabù travestito da regola sociale, il divieto di parlar male dei morti.
Giù il cappello! Non ho difficoltà a figurarmi Iannone in orbace che ingiunge ai passanti, magari rafforzando l'invito con qualche sberla, l'ordine di scoprirsi il capo al passaggio della bara di un milite delle brigate nere, ma difendo - come conquista di tutti - il suo diritto a tenersi il fez in testa davanti al feretro di Saviotti.
Resta il limite del buon gusto, e non è poca cosa, la buona creanza sembra essere oggi il criterio dirimente per distinguere un governo buono da uno cattivo.
Ma le buone maniere, come ci insegna Levy-Strauss, non sono convenzioni arbitrarie, sono rituali secolarizzati.
De mortuis nihil, nisi bonum. L'adagio è antico (Chilone di Sparta, VI secolo aC) e si radica in uno strato molto profondo delle origini del pensiero, in rapporto al quale l'atteggiamento dei magistrati romani, o della teppaglia suburbana, ha irrefutabili credenziali di modernità.
L'idea della morte come atto violento che anticipa sempre l'auspicabile fine naturale, e per il quale deve essere trovato un colpevole, è pur essa di antica origine, ma ha subito un restyling in tempi relativamente recenti, quando la morte, a dispetto degli auspici di Bacone e Condorcet, ha ribadito il suo stato di limite invalicabile dall'universale razionalizzazione pretesa dalla borghesia.
Certo, dalle nostre parti non addebitiamo più la morte, come ancora altrove si fa, al malocchio e alla stregoneria, ma il concetto della morte come violenza è radicato nel nostro inconscio e si rivela cifrato in molte formule di necrologio.
Viceversa la buona regola di non parlare male dei morti si radica in un sistema di credenze con il quale abbiamo perso ogni contatto, e cioè con la primitiva concezione di una capacità d'azione da parte del morto. Di queste inopportune e spaventose manifestazioni di soggettività, la più terribile consisteva nell'esercizio di un'estrema vendetta che si attuava nel portar via con sé eventuali nemici. Di tutti i riti e la prescrizioni da osservare per scongiurare tale possibilità, almeno in occidente abbiamo perso memoria, ci resta, come tabù travestito da regola sociale, il divieto di parlar male dei morti.
Giù il cappello! Non ho difficoltà a figurarmi Iannone in orbace che ingiunge ai passanti, magari rafforzando l'invito con qualche sberla, l'ordine di scoprirsi il capo al passaggio della bara di un milite delle brigate nere, ma difendo - come conquista di tutti - il suo diritto a tenersi il fez in testa davanti al feretro di Saviotti.
martedì 10 gennaio 2012
sabato 7 gennaio 2012
venerdì 6 gennaio 2012
servitori dello stato
il 150 anniversario dell'unità d'italia poteva essere l'occasione per una serie di studi trasversali sulla formazione di questo popolo e della classe dirigente che lo rispecchia.
sarebbe ora di darsi spiegazioni esaurienti sulla miope, avida ed egoista lumpenborghesia nostrana, che a tutt'oggi forma un'immensa zona grigia in cui hanno pieno diritto di cittadinanza connivenze criminali e suggestioni antidemocratiche.
quella parte di classe dirigente che, di volta in volta, si sente avanzata e cosmopolita, non ha dubbi nell'affermare, con aria saputa, che il bandolo della matassa vada ricercato nella mancata riforma protestante, che sarebbe alla base dell'etica delle borghesie d'oltralpe.
la spiegazione ha il merito di rifarsi a un fatto più recente rispetto, magari, a qualche maledizione di noè nei confronti del figlio guardone, ma ha il difetto di essere mossa, da sempre, da quella parte di classe dirigente che, da sempre, va a perpetuarne gli esiti, quando finalmente accede alle leve del potere.
erano massoni e progressisti i governi dell'italia postunitaria, è massone e progressista il governo di oggi.
e dunque, un buon argomento di studio potrebbe essere un'accurata indagine su questo concetto di progresso e sul trasformismo che ha caratterizzato, dalla pentarchia a bersani, i suoi alfieri.
da rivoluzionari a riformisti, poi da riformisti a conservatori, infine da conservatori a reazionari. madamina il catalogo è questo.
questo processo di trasformazione non riguarda la spazzatura ( il pnf, l'uomo qualunque, la lega, ...), il cui populismo è stato intrinsecamente reazionario fin dall'inizio, ma deve investire realtà più complesse, sotto il profilo culturale e la base di classe, quali il sindacalismo rivoluzionario, il partito socialista e quello comunista.
un interessante strumento di analisi potrebbe essere l'analisi del linguaggio. la deriva che porta dagli ardori barricadieri all'apologia dei gendarmi è segnata, infatti, da una serie di risemantizzazioni di vecchie parole d'ordine, che indicano le varie tappe del percorso.
il punto d'approdo finale, e ne abbiamo sotto gli occhi autorevolissimi esempi, è la più veta retorica.
di questi giorni è di cronaca la riesumazione del vecchio ritornello dei servitori dello stato.
la locuzione truffaldina, indica la luna, ma invita a guardare il dito. concentrando tutta l'attenzione sul servitore, quando il problema è lo stato.
cerchiamo di spiegarci, in maniera antipatica, ma chiara.
dal punto di vista formale furono servitori dello stato anche i militi della GNR repubblichina, le SS di hitler, i mercenari di gheddafi.
ma il fatto è che, quando si arriva a un punto di rottura del contratto sociale, la continuità dello stato, e il riconoscimento di chi ne fu il vero servitore, la stabilisce la parte che esce vittoriosa dallo scontro.
ci stiamo avvicinando al punto di rottura? ci sono margini per evitarlo? gli stati nazionali sono ancora titolari del contratto sociale?
di questo, se non si vuole essere cattivi maestri, bisognerebbe parlare, invece di assegnare patenti che potrebbero rivelarsi apocrife.
mercoledì 4 gennaio 2012
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