In quanto uomo, m'impegno ad affrontare il rischio dell'annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo
la loro luce essenziale (Frantz Fanon)

sabato 14 gennaio 2012

il giudice, il fascista e la morte

Gianluca Iannone, esponente di Casa Pound, si è rallegrato, sul suo profilo Facebook, per l'improvvisa e prematura morte del giudice Pietro Saviotti. 
Le sue dichiarazioni hanno provocato reazioni indignate e pare che la procura della repubblica abbia aperto un fascicolo ipotizzando il reato di istigazione a delinquere.
Non conoscevo Saviotti, che immagino giudice integerrimo e degno di stima.
Non conosco neppure Iannone, ma so che è un fascista, e raramente ho incontrato un fascista degno di stima.
Ciò premesso, siccome le libertà di Iannone sono anche le mie, mi vedo costretto a difendere il suo diritto di esprimere un pensiero divergente su una materia monopolizzata da scaramantico conformismo.
Bisogna cominciare col dire che la reazione dei colleghi del giudice scomparso, lesti a rafforzare l'indignazione con la carta bollata, non fa una buona impressione.
Conferma infatti l'idea che la magistratura sia una casta intoccabile, permanentemente dedita, con occhiuta vigilanza e tempestiva repressione, alla propria autotutela.
Alcuni mesi fa, nella mia città, un giovane abitante di quelli che vengono definiti quartieri a rischio, moriva al pronto soccorso, in seguito alle ferite riportate in un incidente stradale. All'ingiustizia di quella fine cruenta e precoce, gli amici del ragazzo reagivano distruggendo i locali dell'astanteria. Cercavano di punire l' impersonale autore di quell'evento definitivo e irrazionale.
Naturamente tra i magistrati e i ragazzi di borgata c'è una differenza abissale di cultura ed educazione, ma è evidente che c'è una certa analogia nei meccanismi che hanno determinato l'attuale reazione delle toghe, con quelli della risposta violenta innescata, a suo tempo, dalla logica del branco.
Per quelli, come me, che hanno vissuto gli anni '70, il ricordo va alle condanne pesanti, fino all'ergastolo, comminate a chi leggeva volantini inneggianti a reati commessi da altri durante la propria detenzione e dei quali, quindi, non si poteva certamente essere ritenuti responsabili.
Il meccanismo giuridico che permise tale inusuale severità, fu quello dell'apologia, un concetto discutibile che difficilmente troverebbe posto in un codice penale non permeato del pensiero fascista di Alfredo Rocco.
In ogni caso, però, il concetto non è qui applicabile, perchè l'infarto che ha ucciso il giudice Saviotti non è un reato, e sfugge anche, stante tale eziologia, come si possa ipotizzare il reato di istigazione a delinquere, di cui parlano le cronache.
Si può anche andar oltre e teorizzare, come ipotesi di scuola, che in ogni caso, l'evento determinante e quello determinato non coincidono, e che si potrebbero dunque esecrare le barbare modalità dell'esecuzione di Gheddafi, rallegrandosi, al contempo, e legittimamente, della sua dipartita. L'omicidio è apologizzabile o condannabile, la morte no.
Resta il limite del buon gusto, e non è poca cosa, la buona creanza sembra essere oggi il criterio dirimente per distinguere un governo buono da uno cattivo.
Ma le buone maniere, come ci insegna Levy-Strauss, non sono convenzioni arbitrarie, sono rituali secolarizzati.
De mortuis nihil, nisi bonum. L'adagio è antico (Chilone di Sparta, VI secolo aC) e si radica in uno strato molto profondo delle origini del pensiero, in rapporto al quale l'atteggiamento dei magistrati romani, o della teppaglia suburbana, ha irrefutabili credenziali di modernità.
L'idea della morte come atto violento che anticipa sempre l'auspicabile fine naturale, e per il quale deve essere trovato un colpevole, è pur essa di antica origine, ma ha subito un restyling in tempi relativamente recenti, quando la morte, a dispetto degli auspici di Bacone e Condorcet, ha ribadito il suo stato di limite invalicabile dall'universale razionalizzazione pretesa dalla borghesia.
Certo, dalle nostre parti non addebitiamo più la morte, come ancora altrove si fa, al malocchio e alla stregoneria, ma il concetto della morte come violenza è radicato nel nostro inconscio e si rivela cifrato in molte formule di necrologio.
Viceversa la buona regola di non parlare male dei morti si radica in un sistema di credenze con il quale abbiamo perso ogni contatto, e cioè con la primitiva concezione di una capacità d'azione da parte del morto. Di queste inopportune e spaventose manifestazioni di soggettività, la più terribile consisteva nell'esercizio di un'estrema vendetta che si attuava nel portar via con sé eventuali nemici. Di tutti i riti e la prescrizioni da osservare per scongiurare tale possibilità, almeno in occidente abbiamo perso memoria, ci resta, come tabù travestito da regola sociale, il divieto di parlar male dei morti.
Giù il cappello! Non ho difficoltà a figurarmi Iannone in orbace che ingiunge ai passanti, magari rafforzando l'invito con qualche sberla, l'ordine di scoprirsi il capo al passaggio della bara di un milite delle brigate nere, ma difendo - come conquista di tutti - il suo diritto a tenersi il fez in testa davanti al feretro di Saviotti.

Nessun commento: