In quanto uomo, m'impegno ad affrontare il rischio dell'annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo
la loro luce essenziale (Frantz Fanon)

sabato 11 gennaio 2014

Cernobyl e il trionfo del populismo

Il populismo, prima ancora di essere scelta politica è opzione culturale.
E' una perversione che promuove le forme ingenue del sapere popolare a dignità di metodo applicabile alla totalità dello scibile.
L'innocua pretesa di essere tutti commissari tecnici della nazionale, che derivava dalla, spesso faticosa, sillabazione degli articoli della Gazzetta dello Sport, si estende ad altri campi: l'economia, il diritto, la pedagogia, l'oncologia.
L'avvento di Internet ha naturalmente semplificato le modalità di autodidattica, talvolta divergente, che un tempo era affidata a quella editoria di nicchia riservata alle edicole delle stazioni.

Un'altra caratteristica del populismo è quella di porre la propria soggettività a metro di giudizio della complessità esistenziale, generalizzando quell'atteggiamento riduzionista e inquisitorio che era appannaggio delle portinaie.

Ascriviamo dunque al populismo quest'unico merito, di aver dimostrato - probabilmente in barba ai propri assiomi interni - l'universalità di atteggiamenti che si volevano differenziati in base al sesso.
Associando questi due atteggiamenti, ne deriva una visione del mondo in cui il relativismo scientifico si associa al determinismo etico, rovesciando la concezione postmoderna nella propria caricatura.
Le conseguenze sono evidenti: si ammette la possibilità di scegliere tra chemioterapia e metodo Di Bella, ma non si può fumare in molti parchi pubblici.

Quest'ultimo esempio mostra come l'atteggiamento inquisitorio sia strettamente correlato alla modalità semplificatoria con cui si vorrebbero applicate nella vita quotidiana le verità mainstream che di volta in volta si affermano attraverso i metodi della pubblicità.
Ciò dimostra la responsabilità dei media, e degli intellettuali in genere, nella diffusione e affermazione dell'atteggiamento populista che fingono di stigmatizzare.
Il perché va ricercato nella prepotente egemonia borghese nel campo della cultura. Ai padroni fa comodo che si affermi una filosofia spicciola che non può che essere liberticida.
Se si dà una scorsa all'agenda politica di questi ultimi tempi, densi di ben altri problemi, troviamo tutta una sfilza di divieti: xenofobia, femminicibio, omofobia ... recentemente si parla anche di salvare, malgré lui, le prostitute dal loro destino, introducendo - neanche a dirlo - dei divieti.
Questa propensione ha rapidamente spazzato via anche il ricordo dei libertari vietato vietare che avevano caratterizzato una breve e ormai lontana stagione, culturalmente eversiva.
E' stato ripristinato il decalogo, poco importa se non più fondato sull'autorità divina e se, in luogo dell'anima, vuol salvare - a tutti i costi - il corpo. E' il principio che conta, perché ripristina un principio di auctoritas che è anche e soprattutto potestas, in base alla quale, nell'accelerazione emergenziale determinata da un qualsiasi spread, ogni libertà individuale può abdicare e devolversi allo Stato, tornato padre e padrone.
Vediamo dunque come si è evoluto questo principio di autorità.
Ogni autorità deriva da un principio superiore, e per molto tempo tale fu l'onnipotente autorità divina. Sulla civtas dei si modellava la città dell'uomo e la religione la faceva da padrone.
L'illuminismo sostituì a dio un principio quasi altrettanto potente, la natura. La natura fu una scelta geniale, perché, da una parte, come atto della creazione, permetteva un'integrazione di tutti i principi precedenti, fondati sulla religione, dall'altra, letta nell'ottica laica di Galileo, il loro superamento.
Fu per questo che i positivisti si illusero che il nuovo paradigma di riferimento potesse essere la scienza.
Ma, come avvertì tempestivamente Nietzsche, non fu la scienza ad affermarsi, bensì un suo parente povero, la tecnica.
La tecnica, dal punto di vista epistemologico, ha il massimo di attendibilità, associato al minimo di validità. A differenza della scienza, infatti, la sua valutazione si basa su applicabilità e risultati e non su fondamenti e principi.
All'interno di una tecnica, i confini sono friabili e non è facile coglierne il punto del salto di qualità. Tra il taylorismo fordista e il lager nazista ci sono solo variazioni quantitative della medesima tecnica di sfruttamento.
Malleabile, reversibile, intercambiabile, la tecnica è lo strumento ideale per modellare il nuovo principio di autorità, che deriva da un fondamento apparentemente di minor spessore ontologico rispetto a dio e natura, ma altrettanto onnipotente: il mercato.
Quando si discute del metodo stamina, ad esempio, si discute di una tecnica, scomodando la scienza.
Perché la tecnica (spacciata per scienza) assurgesse a indubitabile criterio normativo, occorreva però la massiccia diffusione di un nuovo analfabetismo, quello che abbiamo definito, estendendo il termine oltre all'usuale accezione, populismo.

Questo era un compito che si pensava affidato alle forze della conservazione e della reazione, che lo hanno in effetti costantemente perseguito, mobilitando i loro apparati di propaganda e informazione e operando per riforme, anche apparentemente democratiche, della scuola.
Ma non sfugge a nessuno che, da qualche tempo a questa parte, sia la cosiddetta sinistra a delineare il percorso verso un corpo di norme che non sfuggono in alcun modo alla definizione di repressive.
In questo schieramento ci sono sempre state forze che, anche con agguerriti toni estremisti, hanno sempre operato per un progresso all'interno del sistema economico vigente.
Per molto tempo, però, avevano dovuto rassegnarsi alla funzione subalterna a cui le confinava, preponderante ed egemone, un ben diverso orientamento di classe.
Nella cultura politica dei comunisti, i temi culturali, e quelli scientifici in particolare, erano assunti in tutta la loro complessità e nell'attività pedagogica del partito, la divulgazione non era mai semplificazione.

Naturalmente ha poco senso cercare, nel processo complesso - che investe storia, economia, geopolitica, filosofia e financo psicologia - con cui un'egemonia si sostituisce ad un'altra, un crinale che separi i due momenti. Più correttamente si deve pensare a una pluralità di punti di crisi.
Quello su cui voglio attirare io l'attenzione, il referendum del 1987, è comunque un momento topico, infatti, lì, per la prima volta la tecnica diviene argomento decisivo di una scelta politica e determina l'abbandono alcuni punti fermi dell'agire tradizionale.

Non è questa, naturalmente, la prima volta che argomenti tecnico-scientifici entrano nel dibattito politico.
Sul reato di plagio, dopo il processo Braibanti (1968) o nella successiva campagna a sostegno della legge Basaglia, ad esempio, il ricorso alla letteratura scientifica è d'obbligo, ma come pezza d'appoggio di precise opzioni maturate sul piano politico. Si tratta di modernizzare un complesso di norme che più sul piano dell'ispirazione politica, che di quella tecnica, tradiscono la loro condizione di relitti. In un caso e nell'altro, poi, si tratta di contrastare norme repressive e la tecnica è ancillare di un complessivo disegno politico antirepressivo.
Nel dibattito diffuso, si sente parlare di libertà e dignità dell'individuo, il vocabolario tecnico non entra in gioco.
Viceversa, dopo il disastro di Cernobyl, il linguaggio tecnico si diffonde rapidamente: tutti parlano di quei nanocurie di cui, prima, ignoravano l'esistenza.
Non solo, l'apparato tecnico che si disvela sull'onda emotiva del disastro, liquida in pochi giorni scelte maturate negli anni che pur sembravano sostenute da altrettanta autorità scientifica.
Il PCI e la CGIL abbandonano rapidamente posizioni filonucleariste che apparivano anche culturalmente radicate e consolidate.
Nell'affrontare il referendum, il PCI deroga, in almeno tre punti, rispetto alla sua tradizione culturale.

1. Strumento di democrazia liberale, il referendum non è mai piaciuto troppo al PCI che ha però affrontato vittoriosamente quelli su divorzio e aborto.
In un caso e nell'altro ci si è mossi per permettere qualcosa, cioè nell'ottica di defascistizzare e laicizzare un corpo di norme, ostative della libertà individuale, che risentono ancora dell'eredità congiunta di fascismo del ventennio e clericalismo del dopoguerra.
Stavolta, per la prima volta, ci si muove, invece, per proibire.
Grande vittoria della libertà, aveva titolato L'Unità, all'indomani della vittoria divorzista. Per la vittoria contro il nucleare, il titolo non avrebbe senso. Si potrebbe tuttalpiù inneggiare al trionfo della volontà popolare, verità che in un referendum, a prescindere dal vincitore, è tautologica.
2. Nella sua lunga storia di propaganda elettorale, il PCI ha, fino a questo momento, puntato sulla fiducia nel progresso, nel rinnovamento, nel futuro. Ha lasciato al suo avversario - la DC - ciò che conviene ai conservatori, il misoneismo, la diffidenza per un futuro visto sempre come salto nel buio, la difesa dell'esistente con l'arma della paura.

Questa volta, invece, i comunisti ricorrono all'arma degli avversari di sempre e puntano anch'essi sull'ansia sicuritaria degli elettori.
3. Ben raramente, o mai, i comunisti italiani si sono rinchiusi, nella loro elaborazione, nell'ottica ristretta dello sciovinismo e hanno sempre cercato di dare un respiro internazionale alla loro analisi.
Questa volta, però si confina in un miope e etnocentrico provincialismo.
Non si può ignorare, a Botteghe Oscure, che il no al nucleare è un si al petrolio e che questa scelta comporta la pesante intromissione occidentale in medio oriente. Nel rifiutare una quota di rischio eventuale, si condanna, pertanto, altri a morte certa.
Neppure deve sfuggire che la mancata crescita industriale italiana si rifletterà, in regime di scambio disuguale, in una ulteriore squilibrio nei rapporti commerciali col sud del mondo, aumentandone la depauperizzazione. Col senno di poi, si può dire che una parte dell'ondata migratoria deriva dall'esser noi stati, quell'8 novembre 1987, fin troppo padroni a casa nostra.

In occasione del referendum si manifestarono dunque, a sinistra, una serie di caratteristiche che ancora ci portiamo appresso: la volgarizzazione della tecnica (spacciata per scienza), l'abbandono dell'ispirazione libertaria, la sponsorizzazione delle ansie securitarie, il localismo, che ci farà concentrare su Berlusconi, nel ventennio in cui cambiava il mondo, e che sarà causa di un nefasto bipolarismo.
Se aggiungiamo che tra i quesiti su cui si fu chiamati ad esprimerci quel giorno, ce ne fu uno, del tutto inutile, a corollario del caso Tortora, otteniamo anche l'immancabile ingrediente mediatico.
Questo è il cocktail populista e l'8 novembre 1987 è un giorno da studiare.  





 
  
  
    
  
  








  

  

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