Sante Notarnicola
Sante Notarnicola (Castellaneta, 15 dicembre 1938) è un criminale e scrittore italiano.
Trascorre l’infanzia in un istituto. A 13 anni emigra a Torino dove vive la madre. Iscritto alla FGCI poi al PCI, si allontana presto dalla sinistra istituzionale per legarsi a gruppi rivoluzionari e anarchici. Nel 1963 inizia, con la Banda Cavallero, una serie di 18 "rapine rivoluzionarie”.
La Corte di Assise di Milano, con sentenza dell’8 luglio gli infligge l'ergastolo. Notarnicola, in carcere, studia e scrive. Nel pubblica il suo primo libro (L'evasione impossibile).
Nel 1978 è il primo nella lista dei 13 nomi indicati dalla Brigate Rosse, dei detenuti da liberare in cambio del rilascio di Aldo Moro.
Alla sua prima raccolta poetica, Con quest'anima inquieta (Torino, Senza galere, 1979), seguirà La nostalgia e la memoria (Milano, G. Maj, 1986).
Dal 1995, in regime di semilibertà, gestisce un locale a Bologna. Dal 21 gennaio 2000 è libero.
Recentemente è stato inquisito per aver letto una poesia ai funerali di Prospero Gallinari.
In quanto uomo, m'impegno ad affrontare il rischio dell'annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo
la loro luce essenziale (Frantz Fanon)
sabato 30 novembre 2013
martedì 26 novembre 2013
storia di un arrampicatore sociale
alle
origini della cultura politica italiana
storia di un arrampicatore sociale
Marco Tullio Cicerone nacque il 3 gennaio del 106 a.C a Sora, un centinaio di km a sud di Roma. Cicerone apparteneva alla classe equestre, la piccola nobiltà locale, estranea alla grande nobiltà senatoriale, un homo novus.
Giovane promettente, andò a studiare a Roma. Completati gli studi, Marco Tullio era deciso a far cariera, per questa ragione, gli occorrevano delle benemerenze,. pur non avendo attrazione alcuna per le armi, servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della Guerra Sociale.
Ma proprio con Silla, doveva urtarsi, di lì a poco, assumendo la difesa di un suo protetto, Roscio Armerino, accusato di parricidio.
Cicerone vinse la causa, ma stimò più prudente cambiare aria e trasferirsi per un paio d'anni in Grecia, dove fu iniziato ai misteri eleusini (tutto serve).
Tornato a Roma dopo la morte di Silla (avvenuta nel 78 a.C.), Cicerone diede inizio alla sua vera e propria carriera politica, e nel 76 a.C. si presentò come candidato alla questura, la prima magistratura del cursus honorum.
Questore in Sicilia, il giovane avvocato si vide sollecitato a perseguire legalmente il corrotto propretore Verre. Le malversazioni di Verre traevano ragione dal malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle riforme volute da Silla, ma abilmente Cicerone non attaccò l'istituzione senatoria, anzi fece proprio appello alla dignità di tale ordine perché estromettesse i membri indegni. I senatori gliene furono grati.
A difendere Verre era stato chiamato Quinto Ortensio Ortalo, principe del foro e avvocato dell'élite, dopo il processo, sarà Cicerone ad assumere questo ruolo e a iniziare una rapida carriera politica: nel 69 a.C. venne eletto alla carica di edile curule e tre anni dopo, appena quarantenne, diventò pretore.
Ma era pur sempre un homo novus e, malgrado le sue benemerenze, l'aristocrazia del senato aveva un po' di puzza al naso nei suoi confronti.
Pertanto, nel pronunciare il suo primo discorso politico, Pro lege Manilia de imperio Cn. Pompei, nel quale sosteneva il conferimento dei pieni poteri a Pompeo per la guerra contro Mitridate, non ebbe esitazione a schierarsi contro l'orientamento senatoriale. Aveva d'altra parte, fiutato il vento e compreso che l'Asia Minore, minacciata dal re del Ponto, era uno scenario importante per gli speculatori, la nuova aristocrazia del denaro che si affacciava nella vita pubblica romana.
Nel 63 a. C. divenne console e si sdebitò subito con la classe equestre che l'aveva sostenuto, con le quattro orazioni De lege agraria, contro la proposta di redistribuzione delle terre avanzata dal tribuno Servilio Rullo.
Durante il suo consolato Cicerone si trovò alle prese con la congiura di Catilina, un nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato il cursus honorum, aspirava a diventare console. Catilina si candidò a console tre volte e tre volte venne fermato con processi dubbi o con probabili brogli elettorali, finché infine ordì una congiura per rovesciare la repubblica. Catilina contava soprattutto sull'appoggio della plebe, a cui prometteva radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai quali prospettava un vantaggioso sovvertimento dell'ordine costituito.
Cicerone fece promulgare dal senato un senatus consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano poteri speciali ai consoli. Per la seconda volta, dunque, si pronunciava a favore della sospensione della normale legalità.
Catilina preferì, allora, tagliare la corda, ma Cicerone, grazie anche alla costruzione di un falso intrigo internazionale, riuscì a far arrestare i congiurati rimasti e a farli condannare a morte, senza conceder loro la prevista provocatio ad populum, cioè il ricorso al pronunciamento popolare sulla sentenza.
Ma di lì a poco, l'accordo tra Cesare e Pompeo ridimensionò notevolmente il potere dell'oligarchia senatoriale e Cicerone, rimasto senza sponde politiche, preferì mettersi prudentemente da parte.
Ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro fece approvare una legge con valore retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un cittadino romano senza concedergli la provocatio ad populum. Dietro Pulcro, agiva, naturalmente, Giulio Cesare.
La situazione era però ancora fluida e, nel 57 a. C. , i nobili e Pompeo posero un freno alle iniziative di Clodio Pulcro, permettendo il ritorno di Cicerone.
Nel 56 a.C. Cicerone pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui precisava il suo pensiero politico, l'alleanza tra cavalieri e senatori non era più sufficiente e ci voleva un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla sovversione tentata dai populares.
La lotta degenerava, con scontri tra milizie armate delle due fazioni. La squadraccia dei possidenti, comandata da Milone, assassinò Clodio.
Cicerone – 52 a. C. – assunse la difesa, ma la sua arringa, per il timore suscitato dalla presenza nel foro dei partigiani del tribuno ucciso, non ebbe i consueti toni convincenti e Milone fu condannato all'esilio.
Approfittò della morte di Crasso nella battaglia di Carre, divenendo augure in sua vece e, successivamente fu proconsole in Cilicia, mentre si acuivano i contrasti tra Cesare e Pompeo.
Quando Cesare varcò il Rubicone, Cicerone cercò di accattivarsene il favore, ma poi decise di lasciare l'Italia per unirsi a Pompeo. Dopo la grande vittoria di Cesare nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., Cicerone decise di tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello stesso Cesare nel 47 a.C. Divenne, ovviamente, uno sfegatato sostenitore del nuovo padrone, ma le sue speranze di ottenere un ruolo politico furono frustrate.
Alle Idi di marzo, non fu colto di sorpresa, era sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, pur decidendo, non si sa mai, di tenersene alla larga, salvo manifestare, più o meno a cose fatte, una grande ammirazione per l'uomo-simbolo della congiura, Bruto.
Dopo l'uccisione di Cesare, Cicerone tornò ad essere uno dei maggiori leader della fazione degli optimates, mentre Marco Antonio, magister equitum di Cesare, prendeva le redini della fazione dei populares. Antonio tentò di fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i congiurati, ma Cicerone fu promotore di un accordo che garantiva l'impunità a Bruto e Cassio.
Antonio intendeva proseguire la politica di Cesare, ma saltò fuori un nuovo leader politico, Ottaviano, nipote e erede di Cesare, che decise di adottare una politica filosenatoriale, senza minimamente ispirarsi alla volontà dello zio.
Cicerone, allora, si schierò ancora più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede politico di Cesare, e come uomo mandato dagli dei per ristabilire l'ordine. Conseguentemente, tra il 44 a.C. e il 43 a.C., compose le Filippiche, così chiamate per ricordare le omonime orazioni pronunciate da Demostene contro Filippo II di Macedonia.
Ma le necessità della politica inducono talvolta a bruschi cambiamenti. Dopo la sconfitta di Antonio, Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere tra il totale abbandono della politica di Cesare, o la presa di distanza dal senato, al quale rischiava di asservirsi totalmente. Scelse di proseguire almeno in parte la politica cesariana, e costituì, assieme ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato.
Antonio decise di inserire Cicerone nelle liste di proscrizione, decretando, così, la sua condanna a morte.
Raggiunto nella villa di Formia, dove si era rifugiato, Cicerone fu giustiziato nel dicembre del 43 a. C.
storia di un arrampicatore sociale
Marco Tullio Cicerone nacque il 3 gennaio del 106 a.C a Sora, un centinaio di km a sud di Roma. Cicerone apparteneva alla classe equestre, la piccola nobiltà locale, estranea alla grande nobiltà senatoriale, un homo novus.
Giovane promettente, andò a studiare a Roma. Completati gli studi, Marco Tullio era deciso a far cariera, per questa ragione, gli occorrevano delle benemerenze,. pur non avendo attrazione alcuna per le armi, servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della Guerra Sociale.
Ma proprio con Silla, doveva urtarsi, di lì a poco, assumendo la difesa di un suo protetto, Roscio Armerino, accusato di parricidio.
Cicerone vinse la causa, ma stimò più prudente cambiare aria e trasferirsi per un paio d'anni in Grecia, dove fu iniziato ai misteri eleusini (tutto serve).
Tornato a Roma dopo la morte di Silla (avvenuta nel 78 a.C.), Cicerone diede inizio alla sua vera e propria carriera politica, e nel 76 a.C. si presentò come candidato alla questura, la prima magistratura del cursus honorum.
Questore in Sicilia, il giovane avvocato si vide sollecitato a perseguire legalmente il corrotto propretore Verre. Le malversazioni di Verre traevano ragione dal malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle riforme volute da Silla, ma abilmente Cicerone non attaccò l'istituzione senatoria, anzi fece proprio appello alla dignità di tale ordine perché estromettesse i membri indegni. I senatori gliene furono grati.
A difendere Verre era stato chiamato Quinto Ortensio Ortalo, principe del foro e avvocato dell'élite, dopo il processo, sarà Cicerone ad assumere questo ruolo e a iniziare una rapida carriera politica: nel 69 a.C. venne eletto alla carica di edile curule e tre anni dopo, appena quarantenne, diventò pretore.
Ma era pur sempre un homo novus e, malgrado le sue benemerenze, l'aristocrazia del senato aveva un po' di puzza al naso nei suoi confronti.
Pertanto, nel pronunciare il suo primo discorso politico, Pro lege Manilia de imperio Cn. Pompei, nel quale sosteneva il conferimento dei pieni poteri a Pompeo per la guerra contro Mitridate, non ebbe esitazione a schierarsi contro l'orientamento senatoriale. Aveva d'altra parte, fiutato il vento e compreso che l'Asia Minore, minacciata dal re del Ponto, era uno scenario importante per gli speculatori, la nuova aristocrazia del denaro che si affacciava nella vita pubblica romana.
Nel 63 a. C. divenne console e si sdebitò subito con la classe equestre che l'aveva sostenuto, con le quattro orazioni De lege agraria, contro la proposta di redistribuzione delle terre avanzata dal tribuno Servilio Rullo.
Durante il suo consolato Cicerone si trovò alle prese con la congiura di Catilina, un nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato il cursus honorum, aspirava a diventare console. Catilina si candidò a console tre volte e tre volte venne fermato con processi dubbi o con probabili brogli elettorali, finché infine ordì una congiura per rovesciare la repubblica. Catilina contava soprattutto sull'appoggio della plebe, a cui prometteva radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai quali prospettava un vantaggioso sovvertimento dell'ordine costituito.
Cicerone fece promulgare dal senato un senatus consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano poteri speciali ai consoli. Per la seconda volta, dunque, si pronunciava a favore della sospensione della normale legalità.
Catilina preferì, allora, tagliare la corda, ma Cicerone, grazie anche alla costruzione di un falso intrigo internazionale, riuscì a far arrestare i congiurati rimasti e a farli condannare a morte, senza conceder loro la prevista provocatio ad populum, cioè il ricorso al pronunciamento popolare sulla sentenza.
Ma di lì a poco, l'accordo tra Cesare e Pompeo ridimensionò notevolmente il potere dell'oligarchia senatoriale e Cicerone, rimasto senza sponde politiche, preferì mettersi prudentemente da parte.
Ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro fece approvare una legge con valore retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un cittadino romano senza concedergli la provocatio ad populum. Dietro Pulcro, agiva, naturalmente, Giulio Cesare.
La situazione era però ancora fluida e, nel 57 a. C. , i nobili e Pompeo posero un freno alle iniziative di Clodio Pulcro, permettendo il ritorno di Cicerone.
Nel 56 a.C. Cicerone pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui precisava il suo pensiero politico, l'alleanza tra cavalieri e senatori non era più sufficiente e ci voleva un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla sovversione tentata dai populares.
La lotta degenerava, con scontri tra milizie armate delle due fazioni. La squadraccia dei possidenti, comandata da Milone, assassinò Clodio.
Cicerone – 52 a. C. – assunse la difesa, ma la sua arringa, per il timore suscitato dalla presenza nel foro dei partigiani del tribuno ucciso, non ebbe i consueti toni convincenti e Milone fu condannato all'esilio.
Approfittò della morte di Crasso nella battaglia di Carre, divenendo augure in sua vece e, successivamente fu proconsole in Cilicia, mentre si acuivano i contrasti tra Cesare e Pompeo.
Quando Cesare varcò il Rubicone, Cicerone cercò di accattivarsene il favore, ma poi decise di lasciare l'Italia per unirsi a Pompeo. Dopo la grande vittoria di Cesare nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., Cicerone decise di tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello stesso Cesare nel 47 a.C. Divenne, ovviamente, uno sfegatato sostenitore del nuovo padrone, ma le sue speranze di ottenere un ruolo politico furono frustrate.
Alle Idi di marzo, non fu colto di sorpresa, era sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, pur decidendo, non si sa mai, di tenersene alla larga, salvo manifestare, più o meno a cose fatte, una grande ammirazione per l'uomo-simbolo della congiura, Bruto.
Dopo l'uccisione di Cesare, Cicerone tornò ad essere uno dei maggiori leader della fazione degli optimates, mentre Marco Antonio, magister equitum di Cesare, prendeva le redini della fazione dei populares. Antonio tentò di fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i congiurati, ma Cicerone fu promotore di un accordo che garantiva l'impunità a Bruto e Cassio.
Antonio intendeva proseguire la politica di Cesare, ma saltò fuori un nuovo leader politico, Ottaviano, nipote e erede di Cesare, che decise di adottare una politica filosenatoriale, senza minimamente ispirarsi alla volontà dello zio.
Cicerone, allora, si schierò ancora più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede politico di Cesare, e come uomo mandato dagli dei per ristabilire l'ordine. Conseguentemente, tra il 44 a.C. e il 43 a.C., compose le Filippiche, così chiamate per ricordare le omonime orazioni pronunciate da Demostene contro Filippo II di Macedonia.
Ma le necessità della politica inducono talvolta a bruschi cambiamenti. Dopo la sconfitta di Antonio, Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere tra il totale abbandono della politica di Cesare, o la presa di distanza dal senato, al quale rischiava di asservirsi totalmente. Scelse di proseguire almeno in parte la politica cesariana, e costituì, assieme ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato.
Antonio decise di inserire Cicerone nelle liste di proscrizione, decretando, così, la sua condanna a morte.
Raggiunto nella villa di Formia, dove si era rifugiato, Cicerone fu giustiziato nel dicembre del 43 a. C.
sabato 23 novembre 2013
il fantasma di LC
Anarchici, antagonisti, l'ala violenta del grillismo? L'attacco alla sede PD da parte di manifestanti no-tav ha scatenato l'ansia di catalogazione tipica della mentalità repressiva.
Descrivere, definire, discriminare e segregare, il protocollo è questo. E va seguito.
Se ne incarica Il Manifesto, giornale in agonia, ma purtuttavia convinto di essere ancora il depositario e custode della norma per tutto ciò che si agita a sinistra.
Vi si applicano i berlingueriani della diaspora, nelle loro più varie e critiche collocazioni del momento, mai abbastanza critiche da convincerli, nell'inconscio, che - al di là dei suoi indubitabili meriti personali - l'eredità lasciata da Berlinguer fu uno squallido apparato di opportunisti autoreferenziali pronti, per la propria conservazione, a liquidare il PCI e a fondersi con la DC.
Inutile dire che storicamente, quando un'autoproclamata ortodossia comunista si muove in questo modo, vuol dire che il nemico, per quanto lo si possa definire fascista, è a sinistra.
A qualche ortodosso, la memoria personale, ancora pregna degli affetti di allora e per nulla abreagita dalla storicizzazione, ha rammentato Lotta Continua e soprattutto l'estrazione piccolo borghese (con relativi esiti) di molti suoi esponenti.
Strano, che nell'infinito dibattito sul populismo non sia saltata fuori prima, questa sigla.
Perché LC fu un gruppo di ispirazione populista. Il suo punto di riferimento non fu mai, infatti, la classe intesa come avanguardia cosciente, ma il singolo operaio-massa, con tutte le sue contraddizioni. Andò anche più in là, individuando come agente della lotta sociale il proletario, sociologicamente tale a prescindere dalla sua collocazione nel processo produttivo.
Fa dunque specie che a tanti acuti critici occupati, or non è molto, ad analizzare con acribia la nozione di populismo a partire dalla preistoria, sia sfuggita questa connessione.
Viene invece il sospetto che una ricognizione su questo elemento avrebbe nullificato l'assioma di base della ricerca, ovvero l'identificazione del populismo con il pensiero di destra.
Asserire che Lotta Continua sia stata un movimento di destra è impresa difficile anche per il più acrobatico polemista.
Caratteristica precisa del populismo è quella di dare dignità alle soggettività subalterne, con tutte le contraddizioni che ne derivano.
Immaginiamoci cosa potrebbe dire, oggi, dar voce ai proletari che vivono nei quartieri di merda (cito a memoria da un volantino di allora). Darebbe la stura a tutti i borborigmi razzisti che abitano le pance della marginalità urbana e non faccio fatica a immaginare che qualche militante dell'LC di allora, tra quelli che non sono andati a dirigere un giornale, sia diventato, in questi ultimi anni, militante della lega.
Qui c'è uno stallo della ragione che attraversa tutta la nostra storia: come dar voce ai marginali? come affrancarci dall'ipoteca illuministica - e dunque borghese - che ci induce, già dai primi albori del 900, a parlar noi, per loro conto?
Il movimento comunista è imbarazzato e in contraddizione e persino egregi tentativi in campo antropologico e storiografico (Ernesto de Martino, Gianni Bosio o, più recentemente Cesare Bermani) sono stati guardati col sospetto che si riserva all'eterodossia.
Vincolata alla negativa connotazione del sottoproletariato, la sinistra fatica a svincolarsi sia dall'approccio paternalista della carità pelosa, di matrice cattolica, sia da quello spudoratamente interessato delle varie lobby che nelle marginalità ricercano ghiotte occasioni di lucro. In entrambi i casi, si tratta di un evidente atteggiamento élitario.
Lotta Continua utilizzava un trucco evangelico e nella sua azione si rivolgeva direttamente agli ultimi. Nelle periferie urbane del nord, il suo punto di riferimento non era l'operaio qualificato settentrionale, militante del PCI e della CGIL, che era stato partigiano e si era costruita una propria cultura, ma l'immigrato del sud, manovale o a giornata o addirittura senza occupazione, analfabeta e qualunquista, con un senso precario della legalità.
Nell'esprimere la propria soggettività, non più relegata in serie B, che era l'interfaccia di contraddizioni oggettive, il proletario naif di LC si confrontava e spesso si scontrava con l'aristocrazia operaia e in questo confronto si affinava, acquisiva dati, metodi e saperi, cioè cresceva.
La difficile scommessa di portare la tartaruga a raggiugere la lepre, raramente si realizza, ma è l'unica che abbia un senso.
Inversamente, il rapporto delle aristocrazie operaie con i nuovi soggetti, non avrebbe potuto essere altro che un mix di degnazione, commiserazione, pedagogia, un rapporto sterile di tipo coloniale.
Qualcosa, soprattutto nell'ambito del simbolico, rischiava di perdersi, ma capita che, per proseguire in un'impresa, ci si debba alleggerire, buttando a mare anche ciò che non è solo zavorra.
La storia dell'organizzazione parafrasa quella dei suoi militanti: da un'ideologia a banda larga, in cui suggestioni libertarie si mescolavano a ribellismo spontaneo e delusioni marxiste, si passò, per effetto stesso delle lotte, a una sempre più definita linea e cultura politica, ma per molto tempo LC fu un elemento estraneo dell'arena politica, guardato con diffidenza perché non rispettava le regole del gioco.
Nella strategia di LC, ogni lotta era la premessa di quella successiva, nell'assoluto disinteresse per le compatibilità del sistema di cose presente. Veniva cioè messa in atto quella democrazia progressiva che alcuni avevano dimenticato e altri affermavano esclusivamente a parole.
Nella concezione di Lotta Continua, la variabile dipendente non erano i livelli occupazionali o il salario, ma il profitto del padrone, che andava espropriato. L'orizzonte della lotta era dunque il potere e nessuna tregua sociale era possibile prima del suo raggiungimento.
Voleva tutto e chiedeva troppo. Anche a gran parte della sinistra, quindi, il conto presentato da LC sembrò esorbitante e pericoloso per la tenuta di un sistema la cui fine era, tutto sommato, considerata prematura.
Eppure non furono le sconsiderate rivendicazioni del gruppo a distruggere il gigante Montedison o a seppellire in una montagna di debiti l'IRI.
La sinistra responsabile, non avventurista, né velleitaria, preferì, invece, chiudersi a riccio nella difesa delle proprie conquiste, speranzosa di viverne di rendita.
Ma la storia afferma che quando c'è squilibrio tra le forze in campo, l'unica chance dei deboli è la guerra di movimento, mentre è sicuramente votata alla sconfitta la difesa logorante delle proprie posizioni. Rinunciando ad attaccare, la sinistra responsabile vedrà perciò cadere, uno dopo l'altro, tutti i capisaldi che si era affannata a difendere.
In tali frangenti irruppe, intempestivamente o troppo tempestivamente, la questione della lotta armata.
Rinunciando, per una volta, alla propria funzione di maître à penser, il Manifesto se ne uscì con l'irenica e ridicola formulazione, né con lo stato né con le br.
L'errore fu quello di pensare che tale logica biunivoca fosse l'unica possibile.
LC non ripudiava la lotta armata, ma nella sua concezione, anche quella doveva essere una pratica di massa e non un compito delegato a un'avanguardia. Se questa formula era chiara per stabilire i rapporti con la galassia delle bande armate, non era però, forse, sufficientemente precisa per delineare quelli con la nascente area dell'autonomia.
Sta di fatto che alla fine del 1976, l'organizzazione è di fatto sciolta e i singoli compagni compiono le proprie scelte in base a criteri in cui alle diverse analisi della fase si mescolano dati sentimentali. Si segue il destino dei propri amici di quartiere.
Fino a questa data, comunque, nessuno è sedicente. Lo diventerà solo più tardi quando il PCI, accettando la logica biunivoca, opterà per lo stato.
E che stato! quello delle stragi impunite, di Gladio e della P2!
Toccò a Bulow farsi il giro d'Italia delle sezioni ANPI, per richiamare all'ordine i nostalgici di Pietro Secchia, che con certi ambienti erano stati tolleranti o collusi, mentre Lama procedeva all'epurazione della CGIL.
Dichiarate sedicenti le br, si apriva la strada dell'unità nazionale, il cui frutto maturo sarà la sconfitta alla Fiat del 1980. L'inizio della fine.
Più soldi, meno lavoro! La rivendicazione del delegato fece il giro della fabbrica e tutta Mirafiori la fece sua.
Semplice e chiara, la formula del terroncello aveva avuto una popolarità che le complicate alchimie contrattuali della Settima lega non si erano mai sognata.
Eppure la Fiom aveva gente in gamba, forgiata negli anni duri dei sindacati gialli e dei reparti confino.
Ma il terrone della lega operai-studenti (poi, LC) aveva deciso di non rispettare le regole del gioco, di uscire dal seminato, di non concedere al padrone il diritto di decidere di cosa e come era lecito discutere. E fu l'Autunno caldo.
Quello slogan torna in mente oggi, quando qualcuno chiede un reddito qualsiasi, anche svincolato dalla nobilitazione del lavoro. Più soldi, anche senza lavoro.
Ingenuo, ignorante, irriverente e ribelle, torna lo spirito di LC, a tormentare i sonni di chi l'avversò e a tingere di rosso quelli di chi l'amò.
Per qualcuno, è l'occasione per emendare qualche errore, per altri, per perseverarvi.
Descrivere, definire, discriminare e segregare, il protocollo è questo. E va seguito.
Se ne incarica Il Manifesto, giornale in agonia, ma purtuttavia convinto di essere ancora il depositario e custode della norma per tutto ciò che si agita a sinistra.
Vi si applicano i berlingueriani della diaspora, nelle loro più varie e critiche collocazioni del momento, mai abbastanza critiche da convincerli, nell'inconscio, che - al di là dei suoi indubitabili meriti personali - l'eredità lasciata da Berlinguer fu uno squallido apparato di opportunisti autoreferenziali pronti, per la propria conservazione, a liquidare il PCI e a fondersi con la DC.
Inutile dire che storicamente, quando un'autoproclamata ortodossia comunista si muove in questo modo, vuol dire che il nemico, per quanto lo si possa definire fascista, è a sinistra.
A qualche ortodosso, la memoria personale, ancora pregna degli affetti di allora e per nulla abreagita dalla storicizzazione, ha rammentato Lotta Continua e soprattutto l'estrazione piccolo borghese (con relativi esiti) di molti suoi esponenti.
Strano, che nell'infinito dibattito sul populismo non sia saltata fuori prima, questa sigla.
Perché LC fu un gruppo di ispirazione populista. Il suo punto di riferimento non fu mai, infatti, la classe intesa come avanguardia cosciente, ma il singolo operaio-massa, con tutte le sue contraddizioni. Andò anche più in là, individuando come agente della lotta sociale il proletario, sociologicamente tale a prescindere dalla sua collocazione nel processo produttivo.
Fa dunque specie che a tanti acuti critici occupati, or non è molto, ad analizzare con acribia la nozione di populismo a partire dalla preistoria, sia sfuggita questa connessione.
Viene invece il sospetto che una ricognizione su questo elemento avrebbe nullificato l'assioma di base della ricerca, ovvero l'identificazione del populismo con il pensiero di destra.
Asserire che Lotta Continua sia stata un movimento di destra è impresa difficile anche per il più acrobatico polemista.
Caratteristica precisa del populismo è quella di dare dignità alle soggettività subalterne, con tutte le contraddizioni che ne derivano.
Immaginiamoci cosa potrebbe dire, oggi, dar voce ai proletari che vivono nei quartieri di merda (cito a memoria da un volantino di allora). Darebbe la stura a tutti i borborigmi razzisti che abitano le pance della marginalità urbana e non faccio fatica a immaginare che qualche militante dell'LC di allora, tra quelli che non sono andati a dirigere un giornale, sia diventato, in questi ultimi anni, militante della lega.
Qui c'è uno stallo della ragione che attraversa tutta la nostra storia: come dar voce ai marginali? come affrancarci dall'ipoteca illuministica - e dunque borghese - che ci induce, già dai primi albori del 900, a parlar noi, per loro conto?
Il movimento comunista è imbarazzato e in contraddizione e persino egregi tentativi in campo antropologico e storiografico (Ernesto de Martino, Gianni Bosio o, più recentemente Cesare Bermani) sono stati guardati col sospetto che si riserva all'eterodossia.
Vincolata alla negativa connotazione del sottoproletariato, la sinistra fatica a svincolarsi sia dall'approccio paternalista della carità pelosa, di matrice cattolica, sia da quello spudoratamente interessato delle varie lobby che nelle marginalità ricercano ghiotte occasioni di lucro. In entrambi i casi, si tratta di un evidente atteggiamento élitario.
Lotta Continua utilizzava un trucco evangelico e nella sua azione si rivolgeva direttamente agli ultimi. Nelle periferie urbane del nord, il suo punto di riferimento non era l'operaio qualificato settentrionale, militante del PCI e della CGIL, che era stato partigiano e si era costruita una propria cultura, ma l'immigrato del sud, manovale o a giornata o addirittura senza occupazione, analfabeta e qualunquista, con un senso precario della legalità.
Nell'esprimere la propria soggettività, non più relegata in serie B, che era l'interfaccia di contraddizioni oggettive, il proletario naif di LC si confrontava e spesso si scontrava con l'aristocrazia operaia e in questo confronto si affinava, acquisiva dati, metodi e saperi, cioè cresceva.
La difficile scommessa di portare la tartaruga a raggiugere la lepre, raramente si realizza, ma è l'unica che abbia un senso.
Inversamente, il rapporto delle aristocrazie operaie con i nuovi soggetti, non avrebbe potuto essere altro che un mix di degnazione, commiserazione, pedagogia, un rapporto sterile di tipo coloniale.
Qualcosa, soprattutto nell'ambito del simbolico, rischiava di perdersi, ma capita che, per proseguire in un'impresa, ci si debba alleggerire, buttando a mare anche ciò che non è solo zavorra.
La storia dell'organizzazione parafrasa quella dei suoi militanti: da un'ideologia a banda larga, in cui suggestioni libertarie si mescolavano a ribellismo spontaneo e delusioni marxiste, si passò, per effetto stesso delle lotte, a una sempre più definita linea e cultura politica, ma per molto tempo LC fu un elemento estraneo dell'arena politica, guardato con diffidenza perché non rispettava le regole del gioco.
Nella strategia di LC, ogni lotta era la premessa di quella successiva, nell'assoluto disinteresse per le compatibilità del sistema di cose presente. Veniva cioè messa in atto quella democrazia progressiva che alcuni avevano dimenticato e altri affermavano esclusivamente a parole.
Nella concezione di Lotta Continua, la variabile dipendente non erano i livelli occupazionali o il salario, ma il profitto del padrone, che andava espropriato. L'orizzonte della lotta era dunque il potere e nessuna tregua sociale era possibile prima del suo raggiungimento.
Voleva tutto e chiedeva troppo. Anche a gran parte della sinistra, quindi, il conto presentato da LC sembrò esorbitante e pericoloso per la tenuta di un sistema la cui fine era, tutto sommato, considerata prematura.
Eppure non furono le sconsiderate rivendicazioni del gruppo a distruggere il gigante Montedison o a seppellire in una montagna di debiti l'IRI.
La sinistra responsabile, non avventurista, né velleitaria, preferì, invece, chiudersi a riccio nella difesa delle proprie conquiste, speranzosa di viverne di rendita.
Ma la storia afferma che quando c'è squilibrio tra le forze in campo, l'unica chance dei deboli è la guerra di movimento, mentre è sicuramente votata alla sconfitta la difesa logorante delle proprie posizioni. Rinunciando ad attaccare, la sinistra responsabile vedrà perciò cadere, uno dopo l'altro, tutti i capisaldi che si era affannata a difendere.
In tali frangenti irruppe, intempestivamente o troppo tempestivamente, la questione della lotta armata.
Rinunciando, per una volta, alla propria funzione di maître à penser, il Manifesto se ne uscì con l'irenica e ridicola formulazione, né con lo stato né con le br.
L'errore fu quello di pensare che tale logica biunivoca fosse l'unica possibile.
LC non ripudiava la lotta armata, ma nella sua concezione, anche quella doveva essere una pratica di massa e non un compito delegato a un'avanguardia. Se questa formula era chiara per stabilire i rapporti con la galassia delle bande armate, non era però, forse, sufficientemente precisa per delineare quelli con la nascente area dell'autonomia.
Sta di fatto che alla fine del 1976, l'organizzazione è di fatto sciolta e i singoli compagni compiono le proprie scelte in base a criteri in cui alle diverse analisi della fase si mescolano dati sentimentali. Si segue il destino dei propri amici di quartiere.
Fino a questa data, comunque, nessuno è sedicente. Lo diventerà solo più tardi quando il PCI, accettando la logica biunivoca, opterà per lo stato.
E che stato! quello delle stragi impunite, di Gladio e della P2!
Toccò a Bulow farsi il giro d'Italia delle sezioni ANPI, per richiamare all'ordine i nostalgici di Pietro Secchia, che con certi ambienti erano stati tolleranti o collusi, mentre Lama procedeva all'epurazione della CGIL.
Dichiarate sedicenti le br, si apriva la strada dell'unità nazionale, il cui frutto maturo sarà la sconfitta alla Fiat del 1980. L'inizio della fine.
Più soldi, meno lavoro! La rivendicazione del delegato fece il giro della fabbrica e tutta Mirafiori la fece sua.
Semplice e chiara, la formula del terroncello aveva avuto una popolarità che le complicate alchimie contrattuali della Settima lega non si erano mai sognata.
Eppure la Fiom aveva gente in gamba, forgiata negli anni duri dei sindacati gialli e dei reparti confino.
Ma il terrone della lega operai-studenti (poi, LC) aveva deciso di non rispettare le regole del gioco, di uscire dal seminato, di non concedere al padrone il diritto di decidere di cosa e come era lecito discutere. E fu l'Autunno caldo.
Quello slogan torna in mente oggi, quando qualcuno chiede un reddito qualsiasi, anche svincolato dalla nobilitazione del lavoro. Più soldi, anche senza lavoro.
Ingenuo, ignorante, irriverente e ribelle, torna lo spirito di LC, a tormentare i sonni di chi l'avversò e a tingere di rosso quelli di chi l'amò.
Per qualcuno, è l'occasione per emendare qualche errore, per altri, per perseverarvi.
domenica 10 novembre 2013
Un socialista a Palazzo Venezia
Alberto Beneduce (Caserta, 29 maggio 1877 – Roma, 26 aprile 1944). Studente all'Università di Napoli, prese la tessera del Partito socialista italiano. Si sposò a vent'anni ed ebbe cinque figli, nessuno dei quali venne battezzato. I nomi delle prime figlie (Idea Nuova Socialista, Vittoria Proletaria e Italia Libera) testimoniano un'incrollabile fede nell'ideale.
Nel 1904 si laurea in matematica, intenzionato a occuparsi di statistica.
Trasferitosi a Roma, collabora con Ernesto Nathan, primo sindaco anticlericale della capitale e si lega all'ala riformista del PSI. Nel 1912, quando Bissolati e Bonomi vengono espulsi, non rinnova la tessera.
Come gli altri socialisti riformisti, allo scoppio della prima guerra mondiale, Beneduce sostenne le ragioni degli interventisti. Come volontario fu mobilitato col grado di sottotenente del genio territoriale del Regio Esercito, ma nel 1916 lasciò il fronte per essere nominato amministratore delegato dell'INA, del quale era già consigliere
Finita la guerra, nel 1919 si dimise dalla carica e da docente per candidarsi alle elezioni politiche nelle liste del Partito Socialista Riformista Italiano nel collegio di Caserta, divenendo deputato e, successivamente, presidente della commissione Finanze della Camera.
Nel 1921, dopo essere stato rieletto deputato, assunse la carica di Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale nel governo presieduto da Ivanoe Bonomi. Mussolini sul Popolo d'Italia il 5 luglio 1921) ne lodò le capacità. Fu ministro fino al febbraio 1922 e non si ricandidò in Parlamento nel 1924, ma fu vicino ai gruppi democratici aventiniani, che sollecitò a rientrare in parlamento l'anno successivo. Deluso dall'opposizione e ostile al fascismo, si ritirò dalla politica attiva.
Ma la sua competenza sul funzionamento dello Stato, l'amicizia con il direttore della Banca d'Italia Bonaldo Stringher e del ministro Giuseppe Volpi e la stima dello stesso Mussolini ne fecero di lì a poco uno dei più ascoltati consiglieri economici del governo, alle prese con la crisi economica degli ultimi anni '20.
La sua concezione, saldamente legata ai suoi ideali socialriformisti, prevedeva una funzione precisa dell'intervento statale nell'economia.
Il fallimento delle maggiori banche italiane, che detenevano anche numerose partecipazioni azionarie nelle imprese industriali, fu evitato grazie all'intervento dello Stato. Fu varata una legge bancaria che prevedeva la netta separazione fra banche ed imprese industriali, mentre le banche di interesse nazionale venivano salvate con la partecipazione diretta dello Stato al capitale di controllo delle imprese. Le aziende pubbliche rimanevano comunque società per azioni, continuando quindi ad associare, in posizione di minoranza, il capitale privato.
Lo Stato si riservava, inoltre, un ruolo di indirizzo dello sviluppo industriale, in luogo della nazionalizzazione vennero decisi dal governo Mussolini una serie di interventi finalizzati al salvataggio e al sostegno finanziario di singole imprese. A tale scopo fu prima fondato nel 1931 l'Istituto Mobiliare Italiano e successivamente, nel gennaio 1933 - auspici il ministro delle Finanze Guido Jung, Beneduce e il futuro Governatore della Banca d'Italia Donato Menichella - l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI). Beneduce ne fu il primo presidente, dalla sua costituzione fino al 1939.
Beneduce si ritirò progressivamente dalla vita politico-economica a causa delle precarie condizioni fisiche, dovute a un ictus che lo colpì nel giugno 1936.
L'opera di Beneduce dimostra che un certo dirigismo dello stato in economia è perfettamente compatibile con il dominio del capitale, sia in regime democratico - era, coevamente, applicato nel new deal roosweltiano - sia in regime autoritario.
Ai critici che rimproverano a Beneduce il disinvolto passaggio dal socialismo alla collaborazione col regime, si usa opporre l'argomento dell'opposizione, nei suoi confronti, di molti esponenti fascisti. Vi è da dire che la politica propugnata da Beneduce poteva scontentare sia i settori del fascismo borghese, che non vedevano di buon occhio i limiti posti alla libera iniziativa, ma soprattutto il fascismo di sinistra, orientato a una gestione sociale delle imprese.
Nel 1904 si laurea in matematica, intenzionato a occuparsi di statistica.
Trasferitosi a Roma, collabora con Ernesto Nathan, primo sindaco anticlericale della capitale e si lega all'ala riformista del PSI. Nel 1912, quando Bissolati e Bonomi vengono espulsi, non rinnova la tessera.
Come gli altri socialisti riformisti, allo scoppio della prima guerra mondiale, Beneduce sostenne le ragioni degli interventisti. Come volontario fu mobilitato col grado di sottotenente del genio territoriale del Regio Esercito, ma nel 1916 lasciò il fronte per essere nominato amministratore delegato dell'INA, del quale era già consigliere
Finita la guerra, nel 1919 si dimise dalla carica e da docente per candidarsi alle elezioni politiche nelle liste del Partito Socialista Riformista Italiano nel collegio di Caserta, divenendo deputato e, successivamente, presidente della commissione Finanze della Camera.
Nel 1921, dopo essere stato rieletto deputato, assunse la carica di Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale nel governo presieduto da Ivanoe Bonomi. Mussolini sul Popolo d'Italia il 5 luglio 1921) ne lodò le capacità. Fu ministro fino al febbraio 1922 e non si ricandidò in Parlamento nel 1924, ma fu vicino ai gruppi democratici aventiniani, che sollecitò a rientrare in parlamento l'anno successivo. Deluso dall'opposizione e ostile al fascismo, si ritirò dalla politica attiva.
Ma la sua competenza sul funzionamento dello Stato, l'amicizia con il direttore della Banca d'Italia Bonaldo Stringher e del ministro Giuseppe Volpi e la stima dello stesso Mussolini ne fecero di lì a poco uno dei più ascoltati consiglieri economici del governo, alle prese con la crisi economica degli ultimi anni '20.
La sua concezione, saldamente legata ai suoi ideali socialriformisti, prevedeva una funzione precisa dell'intervento statale nell'economia.
Il fallimento delle maggiori banche italiane, che detenevano anche numerose partecipazioni azionarie nelle imprese industriali, fu evitato grazie all'intervento dello Stato. Fu varata una legge bancaria che prevedeva la netta separazione fra banche ed imprese industriali, mentre le banche di interesse nazionale venivano salvate con la partecipazione diretta dello Stato al capitale di controllo delle imprese. Le aziende pubbliche rimanevano comunque società per azioni, continuando quindi ad associare, in posizione di minoranza, il capitale privato.
Lo Stato si riservava, inoltre, un ruolo di indirizzo dello sviluppo industriale, in luogo della nazionalizzazione vennero decisi dal governo Mussolini una serie di interventi finalizzati al salvataggio e al sostegno finanziario di singole imprese. A tale scopo fu prima fondato nel 1931 l'Istituto Mobiliare Italiano e successivamente, nel gennaio 1933 - auspici il ministro delle Finanze Guido Jung, Beneduce e il futuro Governatore della Banca d'Italia Donato Menichella - l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI). Beneduce ne fu il primo presidente, dalla sua costituzione fino al 1939.
Beneduce si ritirò progressivamente dalla vita politico-economica a causa delle precarie condizioni fisiche, dovute a un ictus che lo colpì nel giugno 1936.
L'opera di Beneduce dimostra che un certo dirigismo dello stato in economia è perfettamente compatibile con il dominio del capitale, sia in regime democratico - era, coevamente, applicato nel new deal roosweltiano - sia in regime autoritario.
Ai critici che rimproverano a Beneduce il disinvolto passaggio dal socialismo alla collaborazione col regime, si usa opporre l'argomento dell'opposizione, nei suoi confronti, di molti esponenti fascisti. Vi è da dire che la politica propugnata da Beneduce poteva scontentare sia i settori del fascismo borghese, che non vedevano di buon occhio i limiti posti alla libera iniziativa, ma soprattutto il fascismo di sinistra, orientato a una gestione sociale delle imprese.
il salotto buono
Nel CdA di Mediobanca non c'è lestofante o avanzo di galera che non sia adeguatamente rappresentato.
Sulla banda di strozzini nazionali si realizza il tutoraggio dei padrini franco-tedeschi dell'Europa, attraverso il controllo rapacemente coloniale del gruppo Bolloré e quello, austero, dei ragionieri delle germanizzate Assicurazioni Generali.
Mescolano, spartiscono, comprano e vendono, talvolta regalano.
Nel consiglio d'amministrazione non ci sono economisti (e forse è un bene) ma solo esperti di gestione aziendale e, soprattutto commercialisti.
Trucchi contabili e ingegneria di bilancio sono infatti indispensabili per tirare a campare in un'economia sempre più fittizia.
Buoni e cattivi, delle quotidiane scaramucce finanziarie e borsistiche, siedono vicini allo stesso tavolo e poi fanno merenda insieme.
Sulla banda di strozzini nazionali si realizza il tutoraggio dei padrini franco-tedeschi dell'Europa, attraverso il controllo rapacemente coloniale del gruppo Bolloré e quello, austero, dei ragionieri delle germanizzate Assicurazioni Generali.
Mescolano, spartiscono, comprano e vendono, talvolta regalano.
Nel consiglio d'amministrazione non ci sono economisti (e forse è un bene) ma solo esperti di gestione aziendale e, soprattutto commercialisti.
Trucchi contabili e ingegneria di bilancio sono infatti indispensabili per tirare a campare in un'economia sempre più fittizia.
Buoni e cattivi, delle quotidiane scaramucce finanziarie e borsistiche, siedono vicini allo stesso tavolo e poi fanno merenda insieme.
PRESIDENTE
Renato
Pagliaro
|
Vicepresidente
di RCS
Consigliere
Pirelli
Consigliere
Telecom
|
AMMINISTRATORE
DELEGATO
Alberto
Nagel
|
Già
vicepresidente Assicurazioni Generali
Consigliere
Banca Esperia
Consigliere
ABI
|
DIRETTORE
GENERALE
Francesco
Saverio Vinci
|
ConsigliereAssicurazioni
Generali
Consigliere
Banca Esperia
Consigliere
Compagnie
Monégasque de Banque
Consigliere
Italmobiliare
Consigliere
Perseo
|
VICEPRESIDENTE
Dieterl
Ramp
|
Già
presidente e AD di Unicredit
|
VICEPRESIDENTE
Marco
Tronchetti Provera
|
Presidente
Pirelli
Già
AD Telecom
Consigliere
di RCS
International
Advisory Board di
Allianz.
Consigliere
Università Bocconi
Consigliere
Alitalia
|
VICEPRESIDENTE
Tarak
Ben Ammar
|
Già
socio di Silvio Berlusconi
Consigliere
Telecom
|
VICEPRESIDENTE
Gilberto
Benetton
|
Presidente
di Edizione srl (finanziaria Benetton)
Consigliere
Pirelli
Consigliere
di
Allianz
Consigliere
Atlantia
Consigliere
Autogrill
|
CONSIGLIERE
Pier
Silvio Berlusconi
|
Finvest
Consigliere
Mediaset
Consigliere
Publitalia
Consigliere
Mondadori
|
CONSIGLIERE
Roberto
Bertazzoni
|
Presidente
SMEG SpA
Presidente
COFIBER
Presidente
ERFIN - Eridano Finanziaria SpA
|
CONSIGLIERE
Angelo
Casò
|
Già
presidente Milano Assicurazioni
(Ligresti)
|
CONSIGLIERE
Maurizio
Cereda
|
Consigliere
Ansaldo
Consigliere
Enervit
Consigliere
fondazione IEO
|
CONSIGLIERE
Christian
Collin
|
Direttore
Generale delegato del Gruppo Groupama
|
CONSIGLIERE
Alessandro
Decio
|
Già
manager e consigliere di Unicredit
|
CONSIGLIERE
Giorgio
Guazzaloca
|
Confcommercio
- Già sindaco di Bologna
membro
dell'Antitrust
Già
consigliere di Rolo Banca.
Già
consigliere di Cerved Holding S.p.A.
Già
socio della Fondazione
cassa di risparmio di
Bologna
Già
vicepresidente
di Locat S.p.A.
Già
Presidente di Leasys S.p.A
|
CONSIGLIERE
Bruno
Ermolli
|
Fidato
consigliere di Silvio Berlusconi
Consigliere
Mediaset
Consigliere
Mondadori
Consigliere
Università Bocconi
Presidente
di Sinergetica
Già
senior adviser di JP Morgan
Vicepresidente
fondazione La Scala
Grande
mediatore salvataggio Alitalia
|
CONSIGLIERE
Anne-Marie
Idrac
|
Già
presidente-DG RATP
Già
presidente SNCF
Consigliere
Saint-Gobain
Consigliere
Total
Senior
adviser Suez
|
CONSIGLIERE
Vanessa Labérenne |
manager
gruppo Bolloré
|
CONSIGLIERE
Elisabetta
Magistretti
|
Già
Manager Unicredit
Già
consigliere Pirelli
Già
consigliere Luxottica
|
CONSIGLIERE
Alberto
Pecci
|
Industriale
tessile
Già
consigliere Assicurazioni Generali
Già
consigliere Banca Intesa
Già
consigliere Fondiaria Assicurazioni
|
CONSIGLIERE
Carlo
Pesenti
|
Consigliere
Delegato di Italcementi S.p.A
Consigliere
di RCS
|
CONSIGLIERE
Eric Strutz |
Board
of Managing Directors Commerzbank AG
Consigliere
Partners Group Holding AG
|
sabato 2 novembre 2013
partito laico e orientamento culturale
Nel partito comunista potevano entrare atei e credenti.
Questo comportava che sulla questione dell'atteggiamento nei confronti di dio non si aprisse un dibattito e non si inquisisse sul diritto dei compagni di andare o non andare a messa.
Nel vecchio partito comunista c'era chi era iscritto alla società protettrice degli animali e chi andava a caccia.
Anche questo comportava che non si aprisse un dibattito sull'atteggiamento nei confronti degli animali e non si inquisisse sul diritto della gattara di nutrire i randagi o su quello di portare i bambini al circo.
Non era un compromesso vergognoso, ma l'esatta applicazione del principio che John Locke aveva posto, nel 600, come condizione del superamento delle guerre di religione: il laicismo.
Il vecchio partito comunista era dunque laico e non sposava alcuna filosofia. A metà degli anni '70 prese piede una nuova parola d'ordine: il personale è politico.
Era una formulazione integralista che sarebbe stato meglio lasciare ai Mormoni o ai Salafiti.
E fu l'inizio della fine.
Il fatto che il PCI fosse laico, non significava che vi mancasse il dibattito teorico. Sulla rivista Società, diretta da Ranuccio Bianchi Bandinelli, tutte le più varie questioni culturali e scientifiche venivano discusse, talvolta anche aspramente, ad altissimo livello.
Le questioni rimbalzavano poi su Rinascita e sulla terza pagina dell'Unità. Alcuni argomenti venivano opportunamente divulgati da Il Calendario del Popolo.
Il partito non aveva una linea culturale ufficiale, ma si riservava un'utile funzione di orientamento.
Questo comportava che sulla questione dell'atteggiamento nei confronti di dio non si aprisse un dibattito e non si inquisisse sul diritto dei compagni di andare o non andare a messa.
Nel vecchio partito comunista c'era chi era iscritto alla società protettrice degli animali e chi andava a caccia.
Anche questo comportava che non si aprisse un dibattito sull'atteggiamento nei confronti degli animali e non si inquisisse sul diritto della gattara di nutrire i randagi o su quello di portare i bambini al circo.
Non era un compromesso vergognoso, ma l'esatta applicazione del principio che John Locke aveva posto, nel 600, come condizione del superamento delle guerre di religione: il laicismo.
Il vecchio partito comunista era dunque laico e non sposava alcuna filosofia. A metà degli anni '70 prese piede una nuova parola d'ordine: il personale è politico.
Era una formulazione integralista che sarebbe stato meglio lasciare ai Mormoni o ai Salafiti.
E fu l'inizio della fine.
Il fatto che il PCI fosse laico, non significava che vi mancasse il dibattito teorico. Sulla rivista Società, diretta da Ranuccio Bianchi Bandinelli, tutte le più varie questioni culturali e scientifiche venivano discusse, talvolta anche aspramente, ad altissimo livello.
Le questioni rimbalzavano poi su Rinascita e sulla terza pagina dell'Unità. Alcuni argomenti venivano opportunamente divulgati da Il Calendario del Popolo.
Il partito non aveva una linea culturale ufficiale, ma si riservava un'utile funzione di orientamento.
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