alle
origini della cultura politica italiana
storia
di un arrampicatore sociale
Marco Tullio Cicerone nacque il 3 gennaio del 106 a.C a Sora, un centinaio di km a sud di Roma. Cicerone apparteneva alla classe equestre, la piccola nobiltà locale, estranea alla grande nobiltà senatoriale, un homo novus.
Giovane promettente, andò a studiare a Roma. Completati gli studi, Marco Tullio era deciso a far cariera, per questa ragione, gli occorrevano delle benemerenze,. pur non avendo attrazione alcuna per le armi, servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della Guerra Sociale.
Ma proprio con Silla, doveva urtarsi, di lì a poco, assumendo la difesa di un suo protetto, Roscio Armerino, accusato di parricidio.
Cicerone vinse la causa, ma stimò più prudente cambiare aria e trasferirsi per un paio d'anni in Grecia, dove fu iniziato ai misteri eleusini (tutto serve).
Tornato a Roma dopo la morte di Silla (avvenuta nel 78 a.C.), Cicerone diede inizio alla sua vera e propria carriera politica, e nel 76 a.C. si presentò come candidato alla questura, la prima magistratura del cursus honorum.
Questore in Sicilia, il giovane avvocato si vide sollecitato a perseguire legalmente il corrotto propretore Verre. Le malversazioni di Verre traevano ragione dal malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle riforme volute da Silla, ma abilmente Cicerone non attaccò l'istituzione senatoria, anzi fece proprio appello alla dignità di tale ordine perché estromettesse i membri indegni. I senatori gliene furono grati.
A difendere Verre era stato chiamato Quinto Ortensio Ortalo, principe del foro e avvocato dell'élite, dopo il processo, sarà Cicerone ad assumere questo ruolo e a iniziare una rapida carriera politica: nel 69 a.C. venne eletto alla carica di edile curule e tre anni dopo, appena quarantenne, diventò pretore.
Ma era pur sempre un homo novus e, malgrado le sue benemerenze, l'aristocrazia del senato aveva un po' di puzza al naso nei suoi confronti.
Pertanto, nel pronunciare il suo primo discorso politico, Pro lege Manilia de imperio Cn. Pompei, nel quale sosteneva il conferimento dei pieni poteri a Pompeo per la guerra contro Mitridate, non ebbe esitazione a schierarsi contro l'orientamento senatoriale. Aveva d'altra parte, fiutato il vento e compreso che l'Asia Minore, minacciata dal re del Ponto, era uno scenario importante per gli speculatori, la nuova aristocrazia del denaro che si affacciava nella vita pubblica romana.
Nel 63 a. C. divenne console e si sdebitò subito con la classe equestre che l'aveva sostenuto, con le quattro orazioni De lege agraria, contro la proposta di redistribuzione delle terre avanzata dal tribuno Servilio Rullo.
Durante il suo consolato Cicerone si trovò alle prese con la congiura di Catilina, un nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato il cursus honorum, aspirava a diventare console. Catilina si candidò a console tre volte e tre volte venne fermato con processi dubbi o con probabili brogli elettorali, finché infine ordì una congiura per rovesciare la repubblica. Catilina contava soprattutto sull'appoggio della plebe, a cui prometteva radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai quali prospettava un vantaggioso sovvertimento dell'ordine costituito.
Cicerone fece promulgare dal senato un senatus consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano poteri speciali ai consoli. Per la seconda volta, dunque, si pronunciava a favore della sospensione della normale legalità.
Catilina preferì, allora, tagliare la corda, ma Cicerone, grazie anche alla costruzione di un falso intrigo internazionale, riuscì a far arrestare i congiurati rimasti e a farli condannare a morte, senza conceder loro la prevista provocatio ad populum, cioè il ricorso al pronunciamento popolare sulla sentenza.
Ma di lì a poco, l'accordo tra Cesare e Pompeo ridimensionò notevolmente il potere dell'oligarchia senatoriale e Cicerone, rimasto senza sponde politiche, preferì mettersi prudentemente da parte.
Ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro fece approvare una legge con valore retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un cittadino romano senza concedergli la provocatio ad populum. Dietro Pulcro, agiva, naturalmente, Giulio Cesare.
La situazione era però ancora fluida e, nel 57 a. C. , i nobili e Pompeo posero un freno alle iniziative di Clodio Pulcro, permettendo il ritorno di Cicerone.
Nel 56 a.C. Cicerone pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui precisava il suo pensiero politico, l'alleanza tra cavalieri e senatori non era più sufficiente e ci voleva un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla sovversione tentata dai populares.
La lotta degenerava, con scontri tra milizie armate delle due fazioni. La squadraccia dei possidenti, comandata da Milone, assassinò Clodio.
Cicerone – 52 a. C. – assunse la difesa, ma la sua arringa, per il timore suscitato dalla presenza nel foro dei partigiani del tribuno ucciso, non ebbe i consueti toni convincenti e Milone fu condannato all'esilio.
Approfittò della morte di Crasso nella battaglia di Carre, divenendo augure in sua vece e, successivamente fu proconsole in Cilicia, mentre si acuivano i contrasti tra Cesare e Pompeo.
Quando Cesare varcò il Rubicone, Cicerone cercò di accattivarsene il favore, ma poi decise di lasciare l'Italia per unirsi a Pompeo. Dopo la grande vittoria di Cesare nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., Cicerone decise di tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello stesso Cesare nel 47 a.C. Divenne, ovviamente, uno sfegatato sostenitore del nuovo padrone, ma le sue speranze di ottenere un ruolo politico furono frustrate.
Alle Idi di marzo, non fu colto di sorpresa, era sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, pur decidendo, non si sa mai, di tenersene alla larga, salvo manifestare, più o meno a cose fatte, una grande ammirazione per l'uomo-simbolo della congiura, Bruto.
Dopo l'uccisione di Cesare, Cicerone tornò ad essere uno dei maggiori leader della fazione degli optimates, mentre Marco Antonio, magister equitum di Cesare, prendeva le redini della fazione dei populares. Antonio tentò di fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i congiurati, ma Cicerone fu promotore di un accordo che garantiva l'impunità a Bruto e Cassio.
Antonio intendeva proseguire la politica di Cesare, ma saltò fuori un nuovo leader politico, Ottaviano, nipote e erede di Cesare, che decise di adottare una politica filosenatoriale, senza minimamente ispirarsi alla volontà dello zio.
Cicerone, allora, si schierò ancora più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede politico di Cesare, e come uomo mandato dagli dei per ristabilire l'ordine. Conseguentemente, tra il 44 a.C. e il 43 a.C., compose le Filippiche, così chiamate per ricordare le omonime orazioni pronunciate da Demostene contro Filippo II di Macedonia.
Ma le necessità della politica inducono talvolta a bruschi cambiamenti. Dopo la sconfitta di Antonio, Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere tra il totale abbandono della politica di Cesare, o la presa di distanza dal senato, al quale rischiava di asservirsi totalmente. Scelse di proseguire almeno in parte la politica cesariana, e costituì, assieme ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato.
Antonio decise di inserire Cicerone nelle liste di proscrizione, decretando, così, la sua condanna a morte.
Raggiunto nella villa di Formia, dove si era rifugiato, Cicerone fu giustiziato nel dicembre del 43 a. C.